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martedì 29 maggio 2012

Dita incrociate

Come ormai sanno anche i sassi, io scrivo i miei post quando mi va, e poi li metto in rete ad intervalli più o meno regolari. Avevo scritto le mie riflessioni sulla condivisione nell’arte (il post che segue qui sotto, e che in realtà veniva prima di questo, visto che la cronologia dei blog va a rovescio) ben prima del weekend che è appena terminato, e poi durante il weekend è successa una cosa incredibile. Un minimo minimo di superstizione non mi permette di divulgare ancora alcuna notizia, ma a breve comunicherò al mio piccolo mondo una mia immensa gioia, che mi ha emozionato fino alle lacrime (per davvero, e mi è anche colato mezzo mascara, come una scema in mezzo a venti persone), e che è giusto che condivida con chi mi incrocia in questo blog - per scelta o per caso - perché un po’ tutto è nato da questo blog, lui che nemmeno doveva nascere.
Io non credo agli oroscopi, non ci ho mai creduto, anzi, da ragazzina mi divertivo a comparare quelli delle varie riviste femminili che la zia ci lasciava in casa ad ogni suo passaggio, giusto per dimostrare che dicevano cose opposte sui medesimi segni zodiacali. Ed erano riviste settimanali, non parliamo dei quotidiani dove l’impresa di azzeccare la sola giornata si fa addirittura ardua, e rischiamo di leggere le famose frasi “Sagittario: fate attenzione al caldo dei termosifoni” – “Ariete: fate attenzione ai termosifoni ed al caldo”. E' logico: si sa che gli sbalzi di temperatura fanno male solo a quelli nati in Dicembre, che domanda. Se sei nato in Agosto vai pure a -10 con le manichette corte e non ti succederà niente. Io nasco e resterò per sempre Bilancia ascendente Cancro, ma a parte il fatto che – mi dicono – sia proprio dei Bilancia e dei Cancro avere una spiccata sensibilità soprattutto artistica (non parliamo di quelli che ci cascano dentro doppiamente) non ho mai dato peso alla cosa. Io credo di più al fatto che certe cose si debbano verificare, e basta. Alcuni lo chiamano “destino”, e va bene, chiamiamolo pure così, anche se per me il destino è sempre Dio, solo che in quelle occasioni non si firma. Siamo il prodotto del nostro percorso di vita, siamo il risultato di scelte fatte, di esperienze vissute, di persone conosciute e poi lasciate andare. A volte sorrido quando penso che gli innamorati tendono a dirsi “Perché non ti ho incontrato prima?” (beh, quanto meno gli innamorati “tardoni”, a vent’anni il “prima” non esiste, esiste solo il “dopo”); anche mio marito me lo ripete spesso, lui che è più sfigato di Paperino – ma questa della sfortuna sarà argomento di un altro post, lui lo sa già e mi sta preparando un'interminabile lista – e dice che io sono stata il suo tredici al Totocalcio. Questo perchè quando ci siamo conosciuti noi non esistevano ancora il Superenalotto ed i grattini. Ma io gli rispondo che, se anche ci fossimo incontrati dieci anni prima, probabilmente non ci saremmo notati, piaciuti, frequentati eccetera. Perché io dieci anni prima e lui dieci anni prima eravamo persone completamente diverse, rincorrevamo vite diverse. Ci voleva QUEL percorso e QUEL momento per creare il nostro “noi”.
Credo che le cose che devono succedere prima o poi succedano, semplicemente così, in modo naturale. E noi saremo quello che il nostro percorso ci porterà ad essere, a seconda di come viviamo quello che ci succede adesso, man mano che le scelte ci si presentano (certo, posto di farle, mica dico che si debba attendere fatalisticamente che tutto piova dal cielo). Nell’ultimo mese ho approfondito in punta di piedi la conoscenza di una persona incredibile che sento come un gemello separato alla nascita (anche se in realtà io sono più giovane di ben 113 giorni…), e mi stanno succedendo cose altrettanto incredibili, per lo meno per me, una Bilancia qualunque con ascendente Cancro. Vorrei stringervi tutti!

Condivisione

Qualunque cosa bella della vita, anche una delle famose dieci, in fondo è meno bella se fatta da soli, vale a dire che è più bella se condivisa con qualcuno: il concetto è lo stesso, ma "più bella se condivisa" suona meglio. Dopo oltre vent'anni di lavoro d’Agenzia ormai mi viene spontaneo parlare "al positivo", solitamente è cosa che ti insegnano appena intraprendi una qualunque professione che abbia a che fare con la vendita, o con il pubblico. All'inizio viene difficile (anche perchè nel mio lavoro è fisicamente impossibile parlare di una Polizza per il "caso morte" senza usare prima o poi la parola "morte" o uno dei suoi pochi sinonimi! Così - puntualmente ogni volta - l'interlocutore comincia a fare i cornetti o a toccare le zampe della sedia, quando non qualcos'altro di suo), ti sembra che ogni frase possibile ed immaginabile contenga almeno una negazione (no, non, o una qualunque parola negativa), e ti arrampichi su specchi altissimi o intraprendi infiniti giri di parole pur di arrivare a QUEL concetto usando solo termini positivi... e finisci per sembrare talmente innaturale che la gente ridacchia e non segue il filo di quello che volevi spiegare. E' successo anche a me, ero buffissima. Ma poi fortunatamente la tecnica si impara (come si impara a parlare in pubblico, a dove tenere le mani, a non ondeggiare - nonostante i tacchi alti! - e a fare lo "sguardo a faro"...) e adesso devo dire che è diventato parte di me. Ogni volta che spiego qualcosa di assicurativo (e quindi già del suo molto complicato) e voglio ottenere il feedback immediato dal mio interlocutore non domando mai "Ha capito?" quanto piuttosto "Mi sono spiegata bene?". E' imbarazzante per chiunque ammettere "No, non ho capito un tubo" (anche se entrambi sappiamo che è la pura verità), rinfranca di più poter pensare che forse sono stata io vagamente contorta, lascia aperta la porta per proseguire la trattativa. "Va bene, sono stata contorta, ma adesso te lo rispiego con parole più semplici". E' evidente che non posso assalire il mio Cliente con un arrogante "Guardi, ma lei non capisce proprio niente!", otterrei solo un atteggiamento di chiusura totale, in fondo neanche a me piace sentirmi dare dell'idiota, o peggio ancora prenderne coscienza. E ormai nessuno firma un'assicurazione (o compra qualcosa) solo perchè gli viene imposto da chi parla bene o ha una laurea. Un bel "Ok, evidentemente non mi sono spiegata bene, mi permetta di ripeterglielo" mette di più a proprio agio. Ovviamente finisce che diventa un modus per te, non lo usi solo al lavoro, dopo vent'anni PARLI così e basta. Con chiunque. Infatti ricordo con una punta di sarcasmo un episodio che riguarda uno dei miei primi "tentativi di dipendenti", un ragazzo che mi aveva fatto i tre mesi di prova meravigliosamente, per poi cambiare nettamente atteggiamento (o si drogava prima, o ha iniziato a drogarsi dopo). Uno che al telefono con un grossissimo Cliente si è definito "il mio Socio" perchè dire che era l'impiegato dell'Agenzia gli sembrava "riduttivo" (mi rendo conto solo ora che nel tempo ho avuto vari pazzi con me). Uno che, mentre gli stavo spiegando la clausola Ricerca e Riparazione del Guasto (cosa c'è da capire? Se un tubo si rompe accidentalmente e l'acqua che ne esce crea un danno, noi ti paghiamo la riparazione! Niente da fare, non gli andava giù), e io gli dico meccanicamente "Mi sono spiegata?" perché lo vedo che fa l'occhio bovino di chi sta ascoltando una nenia indiana, mi risponde "Evidentemente no, lei non si sa spiegare bene"! L'ho mangiato. Magari anche alcuni calcoli finanziari complicatissimi non saprò spiegarli bene, ma in questo caso direi che l'incapace sei tu, "mio socio". Oh, mamma mia, questa era una delle mie solite lunghissime divagazioni.
Ero partita dal fatto che le cose belle della vita sono "più belle" se condivise. Mangiare fuori da soli, in fondo, è una tristezza infinita (con la cameriera che ti scruta per capire come mai, e ti fa il sorrisetto di compatimento), fa parte integrante della gioia del ristorante andarci in due, o in gruppo. Il cinema lo stesso; per un periodo della mia vita ho abitato da sola in un paesino di duemila anime sopra Vittorio Veneto in cui non c'era assolutamente niente. Per carità, una vista bellissima, aria buona, e il bosco proprio dietro le spalle - la prima notte non sono riuscita a dormire perchè c'era troppo silenzio... ho dovuto attendere la soglia dei trent'anni per scoprire cos'è IL SILENZIO, quello VERO, l'assenza di ogni suono, o meglio il non-rumore della notte che avvolge tutto. Inconsciamente – io, che sono sempre quella nata nel cemento - tendevo l’orecchio alla ricerca del passaggio di un autobus, o per lo meno del vuota-cassonetti. Dopo la prima settimana ho realizzato che dovevo muovermi spesso, anche perchè all'epoca non avevo ancora capito come fare a stare bene anche sola con me stessa (che è la cosa più bella e naturale, come vivere, ma bisogna saperci arrivare), ero ancora convita di preferire il resto del mondo. Andavo giù in macchina fino a Vittorio e guardavo un sacco di film al cinema; ricordo una sera in cui ho visto "Il paziente inglese"  - che, per chi non lo ricorda, dura 155 minuti - ed in sala eravamo in quattro, tutti distantissimi. E mi era anche piaciuto, il film, anche se avvertivo che mancava qualcosa, qualcuno con cui commentarlo, con cui dividere la commozione, a cui stringere le mani. Un film, un libro, una canzone, non finiscono con la parola "fine", o con l'ultima pagina, o con la musica che sfuma. Quello è l'inizio di qualcos'altro, l'inizio della condivisione che fa sì che - solo parlandone, confrontando emozioni, sensazioni, risa o lacrime - quel film, libro o musica diventino realmente TUOI. Nell'arte direi che si verifica la massima espressione di questa cosa. L'emozione di guardare (sentire, gustare, vivere) un'opera d'arte, un dipinto immortale, una bella chiesa, da sola, vale cento. L'emozione di vedere le mie stesse sensazioni riflesse in un altro paio d'occhi, di sentire che è un brivido condiviso, vale centomila. Mi ritengo una persona felicemente fortunata perchè con mio marito non solo ho avuto questo tipo di infinito, intimo piacere, ma anche qualcosa in più, e intendo la condivisione come "ri-scoperta". Mio marito viene da una famiglia numerosa e non esattamente benestante; quando un adolescente viene piazzato in un cantiere a tirar tubi o portare in spalla bombole di acetilene mentre gli altri adolescenti - nella norma - fanno le vacanze, si iscrivono alla scuola superiore, vivono le loro aspettative ed i loro sogni, diciamo che solitamente non sviluppa un forte istinto di visitare chiese e musei. Si dimentica di quelle poche cose ascoltate alle scuole medie (è esistito Giotto, è esistito Leonardo da Vinci, Michelangelo e forse altri due-tre) e si dedica ad altri passatempi. Io - che credo appunto molto nelle emozioni condivise - ho preteso di farmi accompagnare quasi subito a Ca' Pesaro, che è la Galleria d'Arte Moderna di Venezia - da scema, perchè ci vuole un percorso personale, uno non può essere messo dal nulla davanti allo Spazialismo. E' chiaro che senti gente dire "Potevo farlo anch'io"! Però ricordo che era rimasto colpito dagli "Abbandonati" di Luigi Nono, e valeva la pena di continuare. Altro errore è stato fargli fare tutto il Prado (ma ci tenevo tanto!), perchè un essere umano non preparato collassa a metà strada, e non ti permette di sostare oltre venti minuti davanti alle Pinturas Negras del Goya, che stanno quasi alla fine e per vedere le quali ti sei fatta ore di coda. Anche il Reina Sofia è difficile da comprendere, ma l'emozione di vedere la faccia di chi non conosce già le dimensioni reali di Guernica è impagabile, e ce n'era più d'uno. Picasso potrà piacere o non piacere, la gente potrà conoscere o meno la storia ed il significato di quei disegni, ma fa sempre un certo effetto. Magari non la capisci, ma "senti" che è grande dentro.
A Madrid in compenso c'è quel gioiellino rappresentato dalla Collezione Thyssen, un percorso di storia dell'arte dalle icone del Duecento agli Impressionisti, e lì ho iniziato la mia ri-scoperta. Perchè lui era aperto al bello, solo che non lo sapeva. Aveva la sensibilità straordinaria che io già conoscevo da tanti suoi atteggiamenti, solo che l'aveva lasciata soffocare da altre cose. Una sensibilità "adulta", perchè una cosa è un bambino che va a scuola e studia la storia dell'arte (è scuola, bisogna, è obbligatorio), altra cosa è un adulto che SCEGLIE di lasciarsi travolgere dalla particolare emozione che solo il bello sa dare. Mi ricordava la scena del vecchio film (claustrofobico come film, per quanto mi riguarda, ma la storia è straordinaria) "Anna dei miracoli", il momento in cui Helen Keller bambina CAPISCE, l'attimo in cui scatta la scintilla e le si apre tutto il mondo davanti: può solo imparare. Acqua, terra, foglie, albero, mamma. Assorbe tutto e tutto la invade. Che tra l’altro era un momento in cui io la invidiavo, pur nella follia di quanto sto dicendo – vista la situazione della Keller. Non ricordo quando l’ho visto per la prima volta (forse ero all’Università), ma ricordo che sentivo esattamente la potenza della “conoscenza”: io sono matta per imparare, vorrei sapere tutto. Il “conoscere” è come un fuoco che mi divora, non finirei mai, ed ovviamente in questo modo mi sento spesso indietro, perché non basta mai.
Comunque, per lui è stato così: Van Gogh, Cezanne, Monet (belli!), e poi allora - torniamo indietro - anche Caravaggio, Canaletto, Vermeer (belli!), e arrivi a capire Kandinsky e le avanguardie russe e ad amare un mostro sacro come Salvador Dalì e plani sui nostri Castellani e Bonalumi. Ascolti tutto e tutti e poi finisce che ti innamori di Marcello Scuffi. E io guardo, lui e i dipinti, e condivido, e riscopro; cancello tutto quello che sapevo (o credevo di sapere) e re-imparo. Diluvio di bellezza d'arte, per non smettere mai di emozionarsi.

mercoledì 23 maggio 2012

Epidemia di positività

Come sempre un post tira l’altro, e mi ritrovo a scrivere con in mente cose scaturite da quanto detto qualche giorno fa, mentre il mio file degli argomenti papabili resta lì fermo… Poco male credo, vorrà dire che di questi ritmi – uno o due post a settimana – potrò continuare a giocare a briscola per un annetto buono prima del black-out! Nella coda dell’ultimo post avevo usato la mia personale espressione “predisposizione alla felicità” che è tanto piaciuta al mio adorabile lettore della coda al Carrefour, e da lì riprendo. In questi giorni in ufficio sono un po' sotto pressione, capita spesso che la sera arrivi a casa nervosetta, e questo non è un bene. Una risposta più brusca del solito, un silenzio prolungato perchè penso alle cose mie, un po' meno attenzione o un gesto in meno sono tutte cose che interrompono il cerchio della positività; non so se realmente esista un modo per chiamare questa cosa a cui ho appena affibbiato un nome così da guru che non sembra neanche uscito da me, ma credo che il concetto sia evidente: l'ottimismo si trasmette. E' un contagio, come quando uno starnutisce o sbadiglia in autobus. Avere vicina, anche solo per un momento, una persona felice dentro, che sorride (anche solo per i fatti suoi, non necessariamente legati a te ed alla tua quotidianità) mette di buonumore. Tra l'altro basta anche poco; per esempio nel mio caso basta che un Cliente, uno solo, mi ringrazi per una pratica andata a buon fine, oppure perchè si è sentito seguito e compreso, oppure ancora perchè sente che sono dalla sua parte e lo aiuto a fare una scelta oculata e utile, affinchè io dimentichi immediatamente i nove Clienti prima di lui che sono entrati a muso duro dicendo che siamo dei ladri approfittatori. Lo so bene che non vogliono dare a ME della ladra, a volte me lo precisano anche (di questo sono comunque riconoscente, è già qualcosa), ma ciò non toglie che alla sera l'atteggiamento pesi, e io faccia fatica a mantenermi sempre e comunque positiva e sorridente. Soprattutto se dalla Direzione martellano per risultati che non arrivano (e che non arriveranno mai, se continuano ad aumentare le loro richieste, visto che la gente normale ormai si è ipotecata anche le mutande). In effetti qualche giorno fa il mio Commerciale di riferimento mi ha detto che non mi vede “concentrata sull’obiettivo”… Ha ragione lui, non mi sento per niente concentrata sull’obiettivo, mi rende molto più felice concentrarmi su quale sarà il soggetto della prossima tempera di Nunziante che vorrei comprare, ma dubito che lui sia in grado di comprendere certe sfumature. Il giorno in cui la mia Direzione ci gratificherà con l’arte invece che con viaggi o eventi che sono più una costrizione che un premio, è probabile che mi metterò anch’io a valutare gli obiettivi e a vendere quelle orrende Polizze Miste (no, non credo, le Miste mai, neanche per una sfera di Meggiato, ho troppo rispetto per i miei Clienti per far firmare caricamenti che sfiorano il dieci per cento in anni in cui la gente non sa cosa farà già oggi pomeriggio, altro che domani).
Torniamo a noi: lunedì stavo tornando a casa sotto il diluvio, altra cosa che mi gela l'umore (ma credo sia tipico di tutte le donne, siamo meteoropatiche per DNA), e mi sono messa a pensare a cosa mi fa stare bene, a cosa mi fa ritrovare l'ottimismo, a cosa mi piace. Fatti un elenco delle dieci cose belle della vita - mi sono detta - così come ti vengono, non necessariamente in ordine di importanza; possibile che io non trovi il modo, ogni giorno brutto o così così, di realizzarne almeno una onde ritrovare l'odore della felicità entro sera? O meglio, prima possibile? O meglio, fare in modo che non se ne vada mai, e possa io essere contagio di positività per chi mi incontra?
Bene, questi sono i miei dieci piaceri della vita; e non sono cose assurde ed impossibili, a guardar bene. Infatti tendenzialmente io sono persona più felice che triste, più positiva che negativa, più ottimista che menagramo già del mio... Basta solo farne un metodo scientifico per quel giorno ogni mese in cui non è tutto così automatico; passo indietro per chiarire la storia del giorno al mese, che risale a quando io e mio marito ci siamo conosciuti e abbiamo cominciato a frequentarci. C'è stato un giorno in cui avevo davvero le scatole girate, e un umore da prendermi a sberle da sola, e lui ha cominciato ad innervosirsi (sarà che eravamo all'inizio, ma evidentemente lo stavo abituando bene). Ricordo perfettamente che gli ho detto: UN giorno al mese, un solo giorno di paranoia me lo devi concedere, in fondo sono solo dodici giorni l'anno. Lui - splendido e comprensivo come sempre - ha fatto la faccia di chi sta ponderando e poi ha detto che tutto sommato dodici giorni non erano troppi. Ecco, dopo quindici anni vorrei riuscire ad eliminare anche quelli (per onestà devo ammettere che, con quello che gira qui fuori, sono diventati una ventina), grazie a queste dieci cose:
1) Mangiare la pizza. Io vivrei di pizza, adoro qualunque pizza (e il nutrizionista ha detto chiaramente che se voglio rimanere sotto i 60 chili non ne posso mangiare più di una alla settimana, ovviamente, come tutte le cose irrinunciabili è vietata), ma sullo stesso piano ci metterei anche un bel filetto al sangue. Con le patate. Insomma, mangiare per me è un piacere, va messo tra le dieci cose belle della vita. Sempre i famosi quindici anni fa mio marito, che allora ancora non lo era, raccontava agli amici che probabilmente tra un bel piatto di lasagne ed un paio di orecchini era certo che avrei scelto le lasagne – cosa di cui lui era felicissimo. Probabilmente era vero, anche se è doveroso segnalare che ora sono cresciuta e perennemente a dieta, e tutto sommato per i diamanti sarebbe anche un buon momento.
2) Ascoltare una persona intelligente, preparata e colta che parla di un argomento interessante con cognizione di causa. Detesto la mediocrità dilagante, detesto gli ignoranti che pensano di sapere tutto e vogliono farti la morale, detesto il pressappochismo, detesto chi parla per niente. Poche cose ma dette bene, e fatte meglio, mi conquistano.
3) Fare shopping. Sono pur sempre una donna, anche se lavoro dieci ore al giorno e non ho bambini da accudire. Fare shopping mi sa che il numero tre non se lo merita, ma ho detto che non sono in ordine di importanza... Ci butto dentro tutti gli annessi e connessi, come indossare un vestito nuovo che ti sta bene, oppure infilarsi collant vergini (piacere femminile che solo un'altra donna può capire, del resto quanto fastidio dà la calza usata e poi lavata che fa i grumi?). O ancora avere in armadio un paio di scarpe con tacco dodici che sai già che non metterai mai altrimenti rischi di cadere ad ogni passo, ma solo per il gusto di provarle ogni tanto. Non si tratta solo di shopping, ci metto dentro tutti quei piccoli piaceri legati al prendersi cura di sé, al saper fare una pausa quando serve.
4) Mandare una mail ad un amico che non senti da un po', e scoprire dalla risposta che gli va davvero tutto bene. Poche cose fanno girare la positività come l'amicizia, quella vera, non quella da quaranta amici cliccati ieri. Sapere che una persona a cui tengo è felice mette indirettamente di buonumore anche me.
5) Appendere l'ultimo quadro per cui hai fatto più di quaranta rate mensili, ma sai già che trovartelo davanti mentre fai colazione alla mattina - solo tu e lui, alle cinque e mezza - ti renderà radiosa la giornata. Un quadro bello, un quadro corteggiato e sospirato, come va fatto con ogni cosa bella della vita.
6) Vincere, sportivamente e senza trucchi, chiaro. Mi dispiace per il defunto De Coubertin, ma io non sono una che fa le cose solo per partecipare; vincere mi fa sentire meglio, se parto sapendo che sarà solo pura partecipazione non mi impegno e non mi diverto. Portare a compimento una cosa fatta bene, contro ogni previsione altrui. Dimostrare che ho ragione io, contro tutti. Tante cose intese come piccole vittorie in senso lato. Oppure proprio vincere nel senso di vincere, perchè no (come a Scarabeo, sono bravissima, quando perdo mi secca proprio).
7) Ascoltare "The One" di Elton John per la trecentoventisettesima volta e sentire ancora il nodo in gola. The One è - in questo momento della mia vita - una canzone che mi rappresenta, che adoro e che mi rappacifica da ogni ansia. Citandola intendo mettere tra i miei piaceri della vita tutto ciò che gira intorno a quella particolare musica che ti fa star bene (nel mio caso spazio dai Queen a Mozart), ad un film che conosci a memoria ma ti strappa ogni volta una risata, ad un buon libro che non vedi l'ora di finire - ce ne sono molti, di libri che mi rendono bulimica - e poi quando giri l'ultima pagina ti dispiace, e già vorresti ricominciare.
8) L'odore dell'erba appena tagliata durante una camminata in montagna; forse questo è più un ricordo, una reminiscenza, che un piacere per me ora obiettivamente praticabile. Ma anche il ricordo delle Dolomiti assolate in un Luglio terso, con il cielo che ti invade da sopra a dentro (un mare d'azzurro di giorno, o un fiume di stelle se hai la fortuna di vederlo di notte), il silenzio totale tra le Alpi più belle e possenti - da amare e temere - è cosa che mi riporta decisamente al segno "più". Prima di sposare un uomo che associa la parola “montagna” solo alla parola “neve” (da notare che io NON scio), ho vissuto e riposto negli angoli della memoria emozioni e ricordi che potrebbero bastarmi per una vita, tirandoli fuori un po' alla volta. Come tanti cassetti, basta sapere quale aprire.
9) Un signor bacio, dato come si deve! Accidenti se questa è cosa che fa girare la positività! Forse molto di più di tante altre che nell’immaginario collettivo di norma seguono al bacio, e che finisci per aspettarti, mentre un bacio all'improvviso è una meraviglia... certo, posto che per la persona in questione tu provi amore, o affetto, o quanto meno ti piaccia, altrimenti è cosa da evitare. Ma con chi ricade in queste categorie io direi che vale il podio, strano mi sia venuta in mente come nona. Poi, come donna, è impagabile la sensazione di sentirsi vicini vicini, praticamente naso contro naso, mentre il lui del naso che non è il tuo non sa ancora bene che pesci pigliare. Adoro quel misto di timido ed insicuro che avete voi signori uomini (anche quelli più so-tutto-io-sono-tutte-ai-miei-piedi) quando dovete decidervi, capisco bene che l’idea di una sberla in piena faccia non alletti, ma nessuna donna - per lo meno sobria - vi lascerebbe avvicinare a meno di tre centimetri se in realtà non lo desiderasse anche lei. Braccio teso e una bella stretta di mano vogliono dire no, è evidente. Ma con qualunque altro atteggiamento vale la pena di provare, anche perché di solito noi abbiamo già deciso, solo che ci piace che siate voi a prendere l’iniziativa, fa tanto scena da film.
10) Tenere in braccio un gatto, meglio se cucciolo, meglio se fa le fusa, meglio se ti "fa il pane" sulla mano o sulla spalla. Dico gatto perché io amo i gatti, ma vale per qualunque animale ti piaccia, anche se poche cose al mondo eguagliano il piacere di vivere con un gatto. Mio marito, in fase di preview di questo post, ha obiettato, perché lui ama i cani, il suo sogno è invecchiare con un cane e un giardino in cui giocarci (forse dovrei preoccuparmi, non so se in questo quadretto bucolico io sono compresa o meno). E’ vero, giocare con un gatto è diverso: tu gli fai la farfallina di carta legata alla cordicella e lui per cinque minuti impazzisce; poi anche tu ti fai prendere dal gioco, ti metti a saltare e a fare versi perché non è più una farfallina di carta, è un grosso topo, e lo vedi, e vuoi dargli la caccia anche tu, e allora il gatto all’improvviso si ferma, immobile, assume quella tipica posa da essere superiore e ti guarda con l’aria di uno che dice “Ehi tu stupido umano, ti rendi conto che stai saltando con in mano una farfallina di carta? Vai a dirigere la tua Azienda prima che ti veda qualcuno”. Il gatto sa benissimo quando ti suona la sveglia, infatti comincia a miagolare insistentemente circa venti minuti prima, vuoi mai che per caso tu non la senta; mio papà lavorava a Murano, all’epoca, ed era lui ad alzarsi per primo, quindi era lui a dargli da mangiare dopo la sua notte di sogni felini… E non era assolutamente la fame a farlo miagolare prima, tant’è che con il cambio dell’ora legale rispettava sempre e comunque i venti minuti standard. Nulla eguaglia lo sguardo di un cucciolo di cane – dice mio marito. E’ vero, nel languore del cucciolo di cane ti sciogli; ma lo sguardo altero di incredulo disprezzo, magnetico e distaccato di un gatto non ha paragoni. Il nostro gatto è arrivato in casa quando avevo 18 anni, e ne ho passati molti altri davanti allo specchio ad esercitarmi: viso in alto, lieve smorfia, occhio solo leggermente corrucciato, già sapevo che ne avrei avuto bisogno in un mondo professionalmente maschilista. Ancora adesso, quando dico a mio marito che la tal persona mi rispetta, lui obietta che non è rispetto, è timore reverenziale, perché io certa gente la guardo come un topo morto e questo incute soggezione: anni e anni di pratica per copiare un grosso soriano (che sia per questo che diciamo "topo morto"?). “I cani hanno padroni, i gatti hanno schiavi” (A. Bell).
Ecco la mia lista. Tutto sommato, a parte girare i sentieri delle Dolomiti e comprare quadri (entrambe cose impraticabili quotidianamente, anche se i quadri non è poi necessario comprarli sempre per gioire, basta anche guardarli e basta, dai musei per esempio), sono cose fattibili, no? Magari anche uno shopping estremo è da limitare, più semplice trovare il gatto (o farsi baciare da uno bravo). L'importante è che giri, perchè se lo facciamo tutti, se tutti ci facciamo la lista delle dieci cose belle, davvero la marea dell'ottimismo diventa inarrestabile. Contro ogni previsione.
P.S. Visto che in quanto a lettori sto tallonando il primo capitolo dei Promessi Sposi, mi piacerebbe sentire la lista dei miei compagni di briscola, tanto perchè io sono una che non finisce mai di imparare, e non me ne vergogno. Anzi, anche questo mi fa felice.

   


venerdì 18 maggio 2012

Matematica bellezza

Un post piccolo piccolo giusto perchè nel precedente avevo parlato di soggettività/oggettività a proposito della mia professione, e riflettevo: “Per fortuna che con l'Arte non è così”... Sembra assurdo, perchè in teoria nulla suona soggettivo come l'idea di "bello", c'è anche il proverbio "non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace". E invece no, io penso che questo proverbio sia una cazzata. Io credo nell'idea di un bello assoluto. Certo, poi ci sono i gusti, e quelli sì sono soggettivi, ma il bello è unico. Posso preferire le more o le bionde, gli occhi verdi o quelli nocciola, ma una donna bella è bella ad ogni latitudine, indipendentemente dal colore di occhi, capelli e/o pelle. Per me occidentale, per il masai africano, per il lappone: un bel tramonto, l'immensità dell'oceano, una tigre madre. E nell'arte è uguale: prendi il lappone e portalo dentro alla Cappella Sistina, metti il masai davanti ad un Caravaggio (un Vermeer, un Goya, un Van Gogh, un Klimt!), e guarda che faccia fanno. C'è quel qualcosa che supera tutto il resto, quel qualcosa che ti fa star bene dentro, che ti fa fare pace con il mondo e le sue isterie: un bel dipinto, una bella chiesa, l'armonia totale dei colori e delle forme (di certo non parlo di piccioni imbalsamati). La bellezza vera, il talento vero, sono valori indiscutibili ed assoluti, e ricercarli, scoprirli e coltivarli – una volta trovati – è un dovere civile. Talento vero ovviamente, in ogni campo: io sono intonata e da ragazza suonavo la chitarra e cantavo in chiesa, ma non per questo posso dire di avere talento per la musica. Il fatto che esistano un paio di canzoni che ben si adattano al mio timbro ed alla mia estensione vocali rendono solo gradevole l’ascolto, ma non fanno di me una cantante. Parlo di quel talento, nella pittura, che fa sì che un dipinto ti parli e ti costringa a fermartici davanti ed a pensare (o anche a NON pensare, tanto la sua presenza, la sua essenza bastano). Magari non ti “piace”, ma non puoi negare che è bello, a prescindere. E’ questa una cosa che sento dentro, e chi cerca di negarlo, chi chiama "arte" una tela sporcata col sugo, chi chiama "bello" l'esperimento (magari teso solo a scandalizzare), nega in realtà secoli di storia e di evoluzione della specie umana, da Altamira in poi. Io come collezionista sono una deficiente, perchè a parte due tre cosette non ho comprato pezzi destinati ad impennate vertiginose secondo le teorie dei mercati; certo, su quelle due tre ci spero, mica sono ipocrita... Però non me le sono messe in camera o in salotto, le ho defilate altrove. Perchè in salotto, dove passo la maggior parte del tempo quando posso zittire il cellulare, e in camera, luogo legato per antonomasia alle emozioni, all'amore eccetera, ho voluto essere circondata di cose belle e basta. Ricetta matrimoniale: mettetemi due Scuffi, un Pedretti immenso e un bel tappeto in camera (ognuno parli secondo il proprio portafoglio…), e sono già predisposta alla felicità, mattina e sera - mio marito non deve far fatica per niente.

giovedì 17 maggio 2012

Paradossi

Vedo che ultimamente ho lasciato molto spazio ad Arte e Uomini, e non sono più tornata sull'argomento "Assicurazioni", poverino lui che sarebbe in realtà il primo sostantivo del titolo. Ammetto che come argomento è di certo più arido degli altri due (parlare d'arte è più emozionante, parlare di uomini più divertente), ed alla fin fine - se se ne vuole parlare in generale - quando si son detti quei tre concetti fondamentali non resta granchè, salvo cadere nei luoghi comuni che io cerco sempre di evitare come la peste. Tuttavia negli ultimi giorni alcuni miei Assicurati mi hanno chiesto che fine ha fatto tutto il gran parlare attorno al Decreto Cresci-Italia, cosa è cambiato davvero (se poi è cambiato davvero qualcosa!), e quindi faccio qui un piccolo riepilogo di quanto ho illustrato a questi cari Clienti, che magari può essere illuminante anche per qualcun altro.
Ebbene sì, ovviamente il Decreto è stato convertito in Legge nei tempi stabiliti (adesso si chiama Legge 27/2012, per gli amici “Legge Monti sulle Liberalizzazioni”). Cosa è cambiato davvero? Mah! Per ora stiamo ancora guardandoci negli occhi in attesa di capire qualcosa, salvo che ancora una volta abbiamo assistito a quanto brave sono certe persone a scrivere fiumi di roba che non vuol dire assolutamente niente. La cosa su cui mi ero dilungata di più nei post precedenti su questa questione, vale a dire la faccenda dei tre preventivi, è rimasta praticamente immutata, ma Deputati e Senatori - ammettendo la propria totale ignoranza in materia - hanno demandato all'ISVAP tutta la parte pratica, dandogli quattro mesi di tempo. Tutti abbiamo ben chiaro che è impossibile comparare realmente tre offerte RCA a meno che non siano redatte su basi uguali, abbiano le stesse caratteristiche (massimali, rivalse eccetera); l'ISVAP avrà il compito di stilare un modello valido per tutti a cui riferirsi, e di monitorare i dati ogni sei mesi per vedere se il modello serve davvero oppure è l'ennesima perdita di tempo (io del mio sono già pronta a scommetterci qualunque cosa, anche uno dei miei due Pedretti!). Della serie: arrangiatevi voi che conoscete la materia. Mi chiedo allora perchè, se alla fine si devono arrangiare quelli che conoscono la materia, c'è chi ha proposto questa cosa, c'è chi l'ha confermata, c'è chi l'ha approvata. Fatevi i cavoli vostri! Sono curiosa di vedere come ne verranno fuori, ma con l'adozione di un modello comparativo buono-per-tutti ci si avvicina sempre di più all'appiattimento di ogni confronto, vale a dire che non farà più paura ricominciare a parlare di tariffe ministeriali. Che poi a me non secca: oggi come oggi potrebbe rimettere in riga tante Compagnie che ultimamente hanno sprecato parecchio a destra e a manca (e poi parliamo delle consulenze e degli sprechi pubblici! Come se in grosse imprese private come le Compagnie di Assicurazioni non ci fossero amici di amici di amici da sistemare, e mica come magazzinieri, ci mancherebbe, o dirigenti da attico o niente), tanto poi basta un bel ritocchino alla tariffa RCA per tirar su qualche milione extra. Non voglio parlare per gli altri, parlo per la mia, ma credo che due più due faccia quattro dappertutto. Ogni Gruppo ha la sua "telefonica" che fa tanto chic, e gli aumenti veri se li cuccano le Agenzie. C'è stato un periodo - l'ho già detto - in cui le tariffe della mia Mandante crescevano a dismisura (evidentemente gli amici degli amici da piazzare erano parecchi) e perdevamo Polizze a raffica; hanno chiesto a noi Agenti di veicolare gentilmente chi dava la disdetta verso la "nostra" telefonica/on-line. Tanto per non perderli a livello di Gruppo... Come no, io sto qua a sgolarmi per Zero Euro e tu Compagnia ci fai anche bella figura. Manda in miniera un centinaio di scalda-sedie, cala questi accidenti di tariffe e vedrai come la gente ti resta. Mi rendo conto che sto semplificando troppo (ci sono tantissimi fattori che concorrono a formare una tariffa, ovviamente partendo dall'incidenza dei sinistri), ma non credo di essere distantissima dalla realtà.
A parte i tre preventivi, ci sono almeno un paio di altre cose sulle quali in Ufficio abbiamo tirato su un cabaret non da poco, del resto ormai siamo specialisti, non avremo mai la verve da guitto toscano alla Pieraccioni ma gli argomenti non ci mancano. Una è la scatola nera, quell'aggeggio meraviglioso che secondo la Legge dovrebbe risolvere tutti i problemi, dalla fame nel mondo alla guerriglia Tamil. Più di una Compagnia la proponeva anche prima dell'entrata in vigore della Legge, in verità anche noi, anzi io personalmente no, ma solo perchè conosco i miei polli. O meglio, la spiegavo come andava spiegata, con i suoi pro e i suoi contro. Ecco un pro: il Mega Centralone saprà sempre dove sei e cosa fai (sei finito in un fosso e sei moribondo? Ti soccorrono). Ecco un contro: il Mega Centralone saprà sempre dove sei e cosa fai (tira tu le conclusioni, io sulla Delta nuova non la voglio, e poi se mi ci mette mano un meccanico qualunque e non uno della Casa mi salta anche la garanzia). In caso di sinistro la Compagnia potrà accedere alla “Gestione del Crash” : velocità dell'auto, reale punto d'urto, studi cinetici eccetera. Sei fermo e ti vengono addosso e l'altro nega? Bene, sei a posto. Ma se l'altro manca la precedenza e tu stavi andando a settanta anzichè a cinquanta (settanta, eh, non centoventi, altrimenti lo vedo anche ad occhio nudo che stavi correndo troppo)? Sei proprio a posto, direi, di nuovo. Cosa ti fa credere che la Compagnia in caso di sinistro usi questi dati solo quando serve a tuo vantaggio e non quando serve a vantaggio suo? Il tutto poi a fronte di un risparmio che - almeno nel nostro caso - sfiorava il ridicolo. Eppure la Legge su questo punto è assai chiara: infatti parla di "riduzione significativa" (sic). Ci vorrà come minimo una commissione di venti consulenti per stabilire cosa intendiamo con "significativa": venti percento? Trenta? Cinquanta? Quanto “significativa” è stata la riduzione degli stipendi dei nostri Parlamentari? Ora, io sono anche disposta a farmi mettere le mani sotto al cofano da uno sconosciuto, ed a rischiare la concorsualità ad ogni denuncia di sinistro, ma il premio deve calare di una percentuale che sia di due cifre la cui prima per lo meno sia tre. Ora siamo invece su livelli che si contano sulle dita di una mano, mai oltre il mignolo (o il pollice, per chi conta all’americana).  
L'altra perla è inserita nell'articolo 32 comma 3 quinquies, quello che parla di chi sta nella minima classe di merito, vale a dire il virtuoso, il bravo, quello che incidenti non ne fa (oppure che ha un qualunque parente convivente con queste caratteristiche, e già qui ci sarebbe da scrivere un'enciclopedia, ma io ho già detto la mia nel post sulla Legge Bersani e adesso quello che voglio dire è altra cosa). Dice la Legge che - teoricamente - se uno è bravo e sta nella classe più bassa deve pagare la stessa cifra in tutta Italia, tanto è bravo ed il fatto che risieda a Bari piuttosto che a Trento non fa differenza. Anzi, questo è quello che VOLEVA DIRE la Legge secondo le dichiarazioni rilasciate dagli interessati, perchè in realtà dice: "Per le classi di massimo sconto,  a parità di condizioni soggettive ed oggettive, ciascuna Compagnia di Assicurazione deve praticare identiche offerte". Capito che meraviglia? A parità di condizioni soggettive e oggettive: e cioè? Bari è "soggettivamente ed oggettivamente" uguale a Trento? Io presumo che volessero far riferimento alla potenza dell'automobile, o all'età del proprietario, ma cosa toglie che per me Compagnia anche la residenza sia un parametro "soggettivo"? Infatti a noi è subito girata una Circolare che dice che su questa cosa siamo a posto, tanto in quel soggettivamente ci cacciamo dentro tutto. Ci rendiamo conto che lasciare questa arma in mano alle Compagnie è un suicidio? E’ come la storia della “riduzione significativa”: hai fatto trenta? Fai trentuno, accidenti a te! Metti un numerino preciso, non lasciare che altri decidano! Di questo modo finirà che, se Bari deve pagare come Trento, sarà Trento a pagare come Bari...  
A riguardo io temo quel che succederà a fine anno, visto che la Corte di Giustizia Europea ha dato definitivo parere sul “principio di parità”: dal 21/12/2012 (che poi non è la stessa famosa data della fine del mondo Maya?) differenziare le tariffe rispetto al sesso sarà illegale, quindi impossibile. E’ la coda di una polemica mai vista partita dalla contestazione di una Legge belga che adesso ricasca su tutti gli Stati dell’Unione Europea. Vorrei guardare negli occhi chi ha preso questa decisione per rimproverare i suoi sei neuroni. Ma non sarà mica paragonabile, tanto per fare un esempio, la discriminazione sul lavoro al comportamento alla guida? Che ci siano differenze lo vede anche un orbo: i ragazzini maschi guidano tutti come dei pazzi, le ragazze sono molto più calme (fatte salve le  occasionali stragi di ciclisti che causano perchè smessaggiano come delle dannate al cellulare invece di concentrarsi sulla strada, ma almeno di norma vanno piano). Infatti le tariffe RCA pestano duro i maschietti rispetto alle femminucce. Poi crescendo la cosa si inverte, per lo meno le tariffe nostre: pare che un uomo di 45 anni guidi meglio di una donna di 45 anni, evidentemente dopo una certa età noi donne ci rimbecilliamo, sarà la menopausa. Scherzo ovviamente, c'è una spiegazione tecnica: la media delle donne attorno ai 45 anni ha figli di 18 (i maschietti temerari di prima), e prestano la loro macchina perchè quella del papà non si tocca o ti taglio le mani. Ma dai, alzi la mano chi non sta attento quando incrocia una macchina guidata da una nonna col cappello, o da una suora (qualunque macchina, non solo la Prinz verde!). Che male c'è a far pagare meno le ragazze e di più le vecchiette, rispetto ai coetanei maschi? Vogliamo vedere come andrà a finire? Mi ci gioco l'altro Pedretti: i premi delle ragazze saliranno a dismisura (non dovranno esserci differenze con i maschi!), ed i premi degli uomini maturi anche (non dovranno esserci differenze con le donne!). Della serie: qualcuno fa la Legge, e poi arrangiatevi. 

venerdì 11 maggio 2012

Il mio Onirico Veneziano

Mi piace andarmi a rileggere cose scritte mesi fa, quando ho cominciato; ho aperto la diga e tutta me è venuta fuori, diffondendosi in giro. Senza dire niente di esagerato, semplicemente esistendo, comincio a raccogliere vari commenti (qualcuno direttamente nel blog, qualcuno via mail, qualcuno a voce), ed è davvero come un punto e a capo. Via alcune voci, dentro altre, comunque in simbiosi per emozioni (gioia, rabbia) con questa me rinata. Se agissi d’istinto cancellerei e riscriverei quasi tutto, quanto meno i primi venti giorni, ma non era questo lo scopo, il percorso da seguire; non ho aperto il blog per esercizio di stile, ma per guardarmi dentro e fuori. Quindi anche i post iniziali, brevi-brevissimi, sfiduciati e tristi, lì sono e lì devono restare, senza correzioni. In quel momento io ero quella.
Questa criptica premessa per dire che, in vari post precedenti, ho ricordato emozioni vissute (gli speciali su Scuffi da Orler, il mio contatto con le tele di Van Gogh…) come tra le più intense della mia vita adulta. Più ci ripenso, e più me ne vengono in mente sempre di nuove: ogni volta un ricordo declassa il precedente, in un iperbolico susseguirsi che mi fa tanto Dario Olivi il venerdì sera. Allora, complice una giornata calda ma piacevole, mi sono messa buona buona a respirare arie passate per scegliere “IL” ricordo da condividere con chi mi legge, come se fossi intenta ad aprire vecchie scatole in una soffitta, rivedendo visi, riascoltando voci, risate. Ovviamente non è possibile, soprattutto se si è vissuto abbastanza: mai fare del binario passato un podio (grave errore). Ma d’improvviso l’ho sentito salire, ed è stato un attimo, il ricordo incredibile del mio ultimo giorno di lezione all’Università.
Devo precisare che la scelta della facoltà per me è stata un impulso finale, visto che al Liceo andavo bene praticamente in tutto. Ho frequentato il Liceo Scientifico come risultato della mia prima vera grande battaglia vinta contro i genitori, che volevano a tutti i costi iscrivermi al Liceo Classico perché “scrivevo bei temi” (e poi già mia sorella frequentava lo Scientifico, probabilmente volevano differenziare, come con gli investimenti). Mia mamma e le zie non nascondevano la loro quasi certezza di vedermi intraprendere Giurisprudenza, ed il Classico aiuta. Ma visto che anche a quattordici anni da compiere avevo ben chiaro che grazie-no-la-vita-è-mia, ho piantato i piedi e detto molto chiaramente che o Scientifico o niente, piuttosto non ci andavo (il che era praticamente impossibile, ma incredibilmente ho portato a casa il risultato). Il Liceo Classico della mia città è una imponente costruzione fascista con le colonne popolata nel mio immaginario solo da figli di papà fastidiosi e supponenti, molto meglio il mio Liceo rivoluzionario dove fino a pochi anni prima gli studenti davano fuoco porte e registri (poi come sempre si matura un’idea propria, e la mia è stata ben lontana da quella dei miei compagni con la kefiah che volevano bruciare le porte). Fino all’ultimo anno ero convinta che avrei proseguito con Geologia, o Biologia, o Scienze Naturali, tutte materie che mi piacevano e che studiavo più che volentieri; mai e poi mai avrei pensato a Lettere, la classica materia che mi “veniva” senza sudare sui libri e che sentivo come una cosa talmente naturale da non considerarla nemmeno una materia! Invece in quinta, zàcchete! Complice una combinazione nefasta di materie d’esame mi sono trovata a portare italiano ed inglese, e quindi una decisa full-immersion era d’obbligo (perché con la Commissione esterna non è come con la tua Professoressa, meglio non rischiare, mica puoi andare a braccio tanto lei ti adora qualunque cosa tu dica): mi sono trovata innamorata persa della letteratura, non era più una compagna di giochi e via, era diventata un’amante vera e propria, ed insostituibile. Da corteggiare, ambire, soffrendo e sudando. Quindi ho annunciato in famiglia “Faccio Lettere”, tanto mia mamma la storia di Giurisprudenza se l’era già messa via da un pezzo, e l’ho resa contenta perché potevo pendolare in autobus con Venezia senza spostarmi troppo.
Urge un’altra precisazione: sebbene abbia genitori ed avi venezianissimi, io sono nata in terraferma, e la differenza si sente dentro. Nei miei battaglieri anni adolescenziali posso dire di aver addirittura detestato Venezia, lei dove tutto si fermava: il suo odore, la sua lentezza, la mancanza di tutto sotto mano. Ai primi anni di Liceo intonavamo violenti cori sportivi pro o contro le due squadre di basket (Carrera al di là del ponte, Superga al di qua - erano i tempi di Chuck Jura, e io a volte ci accompagnavo come un'inutile appendice mia sorella che aveva già l'età per fare gli occhi dolci a più di un giovanotto molto alto), che racchiudevano in realtà insulti sull’ospedale di nascita (pescatori! contadini!). Per me Venezia era solo una città pigra e abbastanza sporca dove abitavano i nonni, non avevo ancora l’età per vederla come uno scrigno di meraviglie (certo, le gite scolastiche le facevo, ma quale adolescente va in gita scolastica per guardare DAVVERO chiese e musei?). Il primo sentore del fatto di essere una privilegiata l’ho avuto proprio all’Università, in occasione del giuramento da ufficiale del mio fidanzatino dell’epoca, Genio Militare, Caserma Cecchignola, Roma. Ero sul palco dei parenti tutta coccola col mio vestitino nuovo cucito dalla mamma quando una signora credo milanese o giù di lì mi ha chiesto da dove venivo; istintivamente ho risposto Venezia (la città che “merita un viaggio”, giusto per inquadrare geograficamente…), senza troppa enfasi comunque, e lei si è tutta agitata chiamando il marito “Amoooore vieeeeni, questa signorina è da Venééééézia” neanche avessi detto che venivo da Saturno. Un “Venézia” strettissimo, straripante d’invidia, che mi ha fatto provare orgoglio da un lato e dall’altro bisogno di sentirlo ripetere subito con la E larga: Venèzia si dice, larga, grave, con la zeta quasi esse, possibilmente. E subito dopo “Ma proprio Venéeeezia Venéeezia?”, ed io rinnegando anni ed anni di lotta ho detto “sì”. Cosa non vera, come precisa sempre mia sorella che è nata in centro storico (in vaporetto a momenti nasceva, visto che era pieno Dicembre e la laguna era tutta ghiacciata), a me e nostro fratello che siamo due campagnoli. Ma l’anagrafe parla, sulla Carta d’Identità c’è scritto così, con buona pace dei “gran signori”.
L’Università non mi ha permesso di vedere Venezia sotto altre vesti che le solite: corse da una sede all’altra, spintonando bivacchi di turisti, tramezzini al volo e via. Tranne il miracolo dell’ultimo giorno, che non ricordo ma a naso doveva essere più o meno a inizio Aprile. Il palazzo dove aveva sede il mio dipartimento (il Barbarigo-Nani-Mocenigo) era inagibile per lavori, e noi avevamo chiesto asilo a quelli di Economia Aziendale, cioè il palazzo di fronte rispetto al Rio di San Trovaso, cosa che a noi non dispiaceva per niente perché era una facoltà ben fornita in quanto a ragazzi piacevoli (noi i nostri li contavamo sulla punta delle dita di una mano, in tutti i quattro anni). A differenza del palazzo nostro che aveva i balconi del piano nobile sull’atrio centrale e sempre chiusi, quelli di Economia li avevano in un’aula e ci si poteva affacciare di fuori. Nel corso del mio ultimo anno si verificò un evento della portata di una glaciazione: la posa della nuova illuminazione del Ponte della Libertà, che detta così sembra robetta, ma che in realtà paralizzò il traffico da e per Venezia per mesi interi. Ricordo ancora che, finite le lezioni alle 18.00 da Santa Marta, arrivavo in Piazzale Roma alle 18.10, e vedevo l’autobus delle 18.00 fermo quattro metri davanti al mio, delle 18.15 (e sottolineo fermo). Si arrivava a casa dopo le 20.00, più tardi che a piedi, e se questo era tollerabile in uscita, molto meno lo era in entrata, visto che la lezione quando inizia inizia e mica aspettano te e il tuo autobus lumaca in coda. Vero è che avrei potuto usare il treno, ma con la Stazione non ero proprio casa-e-bottega (o uscio-e-bottega, come dicono nella regione più bella d’Italia). Io quindi per certe lezioni avevo preso l’abitudine di andare a Venezia molto presto, prima delle sette di mattina, perché dalle otto in poi l’orario di partenza diventava ininfluente: saresti arrivato sempre e comunque per pranzo, esattamente come succede le domeniche d’estate verso Jesolo a meno che tu non abbia l’elicottero. Filologia era una di queste, ed è stata l’ultima lezione del mio ultimo anno. Una mattina prestissimo, ma la sede era già aperta, mi sono messa in cuore di aspettare un paio d’ore e sono andata sul balcone, assistendo senza saperlo allo spettacolo unico al mondo di Venezia che si risvegliava. La brezza delle sette in un Aprile fresco ma non più freddo; l’odore della laguna pungente ma pulito - perché sono l’afa ed il caldo che lo rendono cattivo, e alle sette sono ancora a nanna; lo sciabordio dolce del San Trovaso, tagliato da un paio di gondole che andavano a prepararsi – anche loro zitte zitte – per la giornata, con una nebbiolina bassa appena accennata che già aveva voglia di andarsene. Palazzi bianchi, addormentati, appena lambiti da un sole timido. Nessuno in vista, nessuno, eppure rumore di passi cadenzati con l’eco delle calli, come ho imparato a riconoscere col tempo. Nessuna voce forte, nessun grido, solo il bisbigliare della storia. Io al balcone del piano nobile, lui, esattamente  com’era da centinaia d’anni. Pensavo a tutte le persone che vi si erano affacciate prima di me, studentessa agli albori degli anni Novanta: dame con ventagli e vesti settecentesche, seri notabili di metà Ottocento con il cilindro, le nuove generazioni del XX secolo. E sotto sempre il San Trovaso immobile. Dopo mezz’oretta, insieme al lieve grattare d’assi che proveniva dallo Squero in fondo a destra, è arrivata una mia compagna di corso mattiniera come me che si chiamava Giuliana, ha messo il naso fuori e mi ha detto: “Cosa guardi?” Io le ho solo sorriso e fatto segno di tacere, con l’indice alla bocca, e lei ha capito la congiunzione astrale che si svelava solo per noi. Lenta, pigra, placida e per questo bellissima, Venezia in due ore si è svegliata sotto i nostri occhi, stiracchiandosi e rimettendosi piano in movimento, con noi che ci guardavamo commosse a dirci: “E quando ci ricapita?”. L’avevamo avuta sempre sotto al naso, ma ce ne siamo accorte solo l’ultimo giorno; lei ci ha preso per le orecchie e ci ha fatto FERMARE per due ore: guarda, annusa, senti, vivi! Da tutto il mondo c’è gente che paga fiumi di denaro per vedere una volta nella vita quello che stai vedendo tu, e non sempre ci riesce, e si deve accontentare di una corsa sudata dietro ad un ombrellino, e di una foto sotto al campanile. Io mi sono fermata, l’ho sentita, e non ho più dimenticato. E per la cronaca, a Filologia ho preso trenta.   

martedì 8 maggio 2012

Movimento Tre Stelle

Ieri sera ho terminato la visita dall’ultimo Cliente che era già tardino, e quindi mi sono fermata per una bistecca in una trattoria del paesotto dove mi trovavo; come sempre capito in mezzo a cose che mi fanno riflettere o quanto meno sorridere. Hanno fatto fatica a trovarmi un buco perché l’intero locale era prenotato: la parte di sotto dai politici vittoriosi (è un Comune in cui si è votata l’Amministrazione), la parte di sopra dagli juventini. Io ho mangiato di sopra.
Già andando verso la trattoria avevo incrociato i due cortei di macchine ugualmente strombazzanti, quelle con le bandiere bianconere (salutate con deferenza e mano sul cuore), e quelle con gli striscioni della Lista Civica locale, perché poi pare che un po’ in tutta Italia abbiano trionfato queste nuove Liste di Scontenti a simbolo dell’antipolitica generale. Dico “pare” perché dove abito adesso non si votava (e poi non ci sarei andata comunque, come ho già fermamente dichiarato), e tra questo e la mia attuale nausea generale per l’argomento non ho approfondito. Tuttavia, se posso accettarlo per paesotti di cui nessuno conosce l’esistenza (dove magari le decisioni se costruire la nuova scuola o la pista ciclabile vengono prese al Bar, e poi si può ancora votare la faccia, la persona, e non il simbolo), mi spaventa l’idea che Liste nate dal niente possano, nel 2013, imporsi a livello nazionale. I partiti veri ci vogliono, c’è poco da fare purtroppo, sono le persone che vanno buttate a mare: via questi e dentro facce nuove, ma sempre sotto l’egida di un’idea, di un programma preciso, di una direzione comune verso cui procedere con dati certi alla mano. Sono molto scettica nei confronti dei mini-partiti che cavalcano l’onda dell’emotività nazionale, anche guardando le loro promesse, che sono spesso puri slogan senza alcuna base pratica. “Costruire centri di accoglienza dignitosi per i migranti”: certo! E’ una bella cosa e ci fa sentire tutti più buoni accogliere i disperati. Ma dove li fai questi centri? Dietro casa mia no di sicuro. Prova a scendere nel pratico e domandare alla gente: questo posto lo tiriamo su qua dietro, e vediamo cosa ti risponde. “Potenziare l’aiuto allo studio”: bellissimo. Come? Con quali soldi? Non voglio scendere ulteriormente nel particolare (le pensioni, l’energia, i rifiuti, le infrastrutture eccetera eccetera), ma è evidente che tutti sappiamo che è meglio essere belli, sani, felici, ricchi piuttosto che brutti, malati, tristi e poveri. E’ evidente che una persona che dichiarasse “Risolverò il problema delle pensioni gasando tutti i vecchietti” oppure “Odio i bambini: chiuderò tutti gli asili” non beccherebbe uno straccio di voto. E’ di certo più rinfrancante votare chi ama i bambini, la natura, aiuta gli anziani e risolve i problemi della nazione togliendo ai ricchi per dare ai poveri. Sempre che i ricchi non se ne accorgano prima e facciano sparire tutto, così la nazione va a rotoli, perché abbiamo bisogno di quella ricchezza perché le cose girino, qualcuno lo dica in francese. Forse per questo continuo a fidarmi di Nonno Loden: perché dice “farò questa cosa in questo modo e prendendo i soldi da lì, e tra tot mesi il risultato sarà questo”. Poi magari posso non essere d’accordo, ma ammiro che si provi un preciso percorso tracciato, e non il solito bla-bla-bla che ci fa sentire tutti bravi e buoni, e poi tutto resta come prima, fiumi di soldi spariscono chissà dove e in quel posto ce l'hanno sempre gli stessi.
Tra l’altro, l’enorme smisurato gruppo del piano di sotto era composto tutto da gente di una certa età, quindi mi immagino che sotto la bandiera svolazzante della Listerella Locale ci fossero tante facce che nei secoli avevano baciato altre bandiere, prima esibite e poi rinnegate, tanto poi ci si ritrova tutti a mangiare in trattoria, e avrei tanto voluto chiedere al titolare del posto se questa mega-cena era per caso la prima spesa della nuova Lista a carico della cassa comunale, o se ciascuno di questi signori cacciava i suoi 30 Euro di tasca, come gli juventini dei piani alti. Che comodo così, vero? E stonava pure tanto il corteo con gli striscioni (con tutti i problemi che avrà ogni Amministrazione entrante di questi tempi, cosa c’è da festeggiare?) se paragonato ai tifosi bianconeri, perché non si insulta la fede. Non mettete il nostro scudetto al pari della Lista della Betulla!
Mi sa che devo spiegare questa cosa della Betulla, che ovviamente non è il nome della Lista civica - per fortuna. Io sono cresciuta in una città di cemento, praticamente a pane e smog; ero una bambina fortunata perché nel nostro cortile c’era UN albero (tristissimo e di un verde-ricordo) ed il terreno era sassoso, mentre tutti i condomini attorno a dove abitavo avevano il giro di asfalto. La regina delle amichette era una bambina che vicino casa di alberi ne aveva ben quattro, e quindi poteva permettersi di farci giocare ai Quattro Cantoni (scegliendo rigorosamente i cinque eletti volta per volta), mentre gli esclusi restavano a saltellare sul Campanon segnato col gesso sull’asfalto. Adesso che sono grande e ho due soldi mi sono permessa di trasferirmi in una ridente vicina cittadina che ha fatto del verde una bandiera; ecco, qui non hanno detto “Tirerò su tanti palazzoni anonimi senza alcun piano regolatore” oppure “Odio l’erba: butterò diserbante su tutti i parchi gioco” per farsi votare. Le case non hanno le murette ma le siepi, i giardini – anche quelli condominiali – non hanno sassi ed asfalto ma l’erba, e bisognerebbe aprire un nuovo  capitolo sul fatto che siepi ed erba sono VIVE, crescono, ci va fatta tanta manutenzione… Cosa che non sempre chi compra casa qua capisce. Comunque cavoli suoi, io non ho figli quindi non sono miei quei bambini che vedo giocare nel parco con l’erba che ormai arriva alle loro piccole fragili spalle (perché se non paghi le spese di manutenzione del parco col cavolo che il giardiniere ti va a tagliare il verde), immersi in nidi di chissà quali bestie volanti e puntute grosse come le loro mani, calpestando ora escrementi ora siringhe – giacchè questo è quello che succede se lasci sopraggiungere lo sfascio del verde! A certi livelli, meglio scaricare la betonata.
Comunque da quando abito qui, dopo un’estate passata a soffocare credendo di morire ad ogni respiro - e mica potrà essere sempre bronchite! - ampiamente dopo i quarant’anni ho scoperto di essere allergica alle betulle (che allergia sarà mai? Dovevo distinguermi anche in questo, per lo meno posso ancora abbracciare i gatti). Non solo le betulle-betulle, chiaramente, ma tutte le piante del loro ceppo, tutti quegli alberi con il fusto chiazzato chiaro, e qui ce n’è una infinità. Praticamente li amano tutti, li hanno piantati ovunque. Quindi non potendo neanche lontanamente pensare di traslocare di nuovo, adesso giro con il Ventolin sempre in borsa, e la betulla è diventata il simbolo di tutto ciò che non va bene per me. Quando c’è un congresso rognoso (di quelli dove presenziare è d’obbligo, ma che sai già sarà una perdita di tempo, con seccature che andranno dalla noia mortale al collega su di giri che scambia la tua cortesia nel passargli la bottiglia dell’acqua per un invito a bussare alla tua camera all’una di notte), le Ragazze mi dicono: “E’ arrivata la conferma della prenotazione: alloggi all’Hotel Parco delle Betulle”, e cose così. I Clienti più maleducati sono sempre in Via delle Betulle. Se al ristorante si mangia male, beh, avete capito… è inutile che continui con esempi scemi che sono belli solo se detti nel contesto dell’avvenimento. Diciamo che rimpiango un po’ i sassi e l’asfalto, magari sotto una enorme, stellata bandiera bianconera.

domenica 6 maggio 2012

L'appetito vien mangiando

Bene, è ufficiale: ho un lettore fisso! Quando ho impostato la pagina del blog, all'inizio, ero incerta se mettere o meno la possibilità di "iscriversi", visto che alla fin fine lo facevo per me stessa e non avevo la più pallida idea di come sarebbe andata a finire; anzi, probabilmente i primi post erano talmente crudi che sotto sotto non volevo nemmeno che venissero letti. Sfoghi miei, e porta chiusa. Invece poi avevo deciso di lasciarla perchè, tutto sommato, era una cosa curiosa, e poi dalle Statistiche vedo che c'è gente che legge, intendo con una certa continuità, vale a dire escludendo quelli che bussano qui da me per sbaglio, perchè stanno cercando un modo per staccare l'argento dalle cornici per venderlo (e Google li rimanda anche qua, ah, la crisi), oppure perchè vogliono sapere se il 25 Aprile le agenzie di assicurazioni lavorano (e perchè cavolo dovremmo??? Tu lavori il 25? No!), o ancora quanto costa la RCA del rischio statico di una roulotte, vale a dire meno di 40 Euro, e non oso pensare che ci sia davvero gente che perde un'ora con i preventivatori on-line per una Polizza da 40 Euro...
Adesso dovrei mettere il fiocco blu: è arrivato Stefano! Che tra l'altro io non conosco assolutamente, e quindi la cosa mi inorgoglisce vieppiù, visto che avevo accuratamente evitato di spargere la voce del blog tra amici e parenti per non fare la fine dello scrittore al primo libro che si compra le copie da solo. E poi sinceramente il motivo che mi ha spinto a scrivere "pubblicamente" era pur sempre cosa che non è carino spiattellare ad amici e parenti, perchè sono dolori privati e perchè molti non avrebbero capito come mai ero arrivata fino a lì. Col tempo l'ho detto ai miei genitori, e a mia sorella, ma per esempio dubito che mio fratello a tutt'oggi lo sappia. Stefano invece non mi conosce, vedo dal suo profilo che è nel mondo dell'arte (infinitamente più tecnologico di me), magari si è iscritto solo perchè ogni volta gli appariva la scritta di Blogger: "Sii tu il primo!", e lui è semplicemente un tipo che ama essere il primo in tutte le cose che fa. Oppure si è iscritto per un giro di link (sembro quasi vera quando parlo così) ed in realtà non legge fino in fondo le mie emozioni. O magari ha sbagliato a cliccare. Ma non importa: c'è. In questo modo direi che attorno a Trecose si sta formando un variegato gruppetto:
- MaxRik0104, mia prima lettrice regolare da quando l'ha saputo, però lei non conta e svelerò finalmente il perchè, visto che non voglio dare l'impressione di bistrattare le opinioni ed i commenti di MaxRik: MaxRik è mia sorella.
- I miei genitori, che mi leggono su carta, ogni tre-quattro post, in assenza di altra possibilità. Li stampo e glieli faccio avere; me li rendono con una velocità impressionante, ma so che li leggono perchè mia mamma, ogni tanto, mi manda un commento via sms (peccato che non lo possa far condividere, ma forse è ancora più speciale il fatto che resti solo mio). Mi ha detto ad esempio che aveva trovato nei pressi di Palazzo Zabarella a Padova - nota sede di esposizioni - un ristorante/libreria che sembra quello che io fantasticavo con la mia futura sala da the nel post su Roma. Mi ha anche detto - riferito a "Figli" - che non è possibile che io abbia smesso di amare i bambini, perchè sono cose che non cambiano mai, semplicemente ho accettato l'idea di non volerli; lei - dice - ama i gatti, ma visto che averne uno in appartamento è oltremodo complicato, per la pulizia, la gestione delle ferie, per non lasciarlo troppo solo eccetera, ha deciso che non ne avrà, eppure tutto ciò non toglie che i gatti le piacciano. Può essere che abbia ragione lei. Però non so, noi l'abbiamo avuto in famiglia un gatto, per 15 anni, un grosso soriano (per le enciclopedie feline un gatto tigrato europeo, ma rigorosamente lagunare in quanto nato a Murano, e quindi soriano) che era a tutti gli effetti il sesto componente della famiglia. Quindi lei parla a ragion veduta, perchè l'esperienza del gatto l'ha fatta. Io invece non ho avuto figli, non posso dire di aver cambiato idea perchè l'ho provato. Semplicemente ci sono arrivata con gli anni. O forse ha ragione lei, cerco solo una giustificazione valida per non sentirmi diversa dalle mamme.
- La mia dolce metà, che in realtà è il mio primo fan nella vita, al di là del blog e di tutto quello che posso scrivere, pensare e trasmettere. Ogni decisione importante degli ultimi anni, anche se personale, è stata comunque con lui condivisa. L'ultimo Natale, mentre strisciavo per terra sotto il mio umore nero, lui mi ha chiesto: "Cosa pensi potrebbe farti stare meglio?", e io ho risposto "Scrivere". "E perchè non lo fai?" mi ha detto. Come se fosse la cosa più naturale del mondo. Io ho espresso tutta una serie di dubbi, che partivano da quanto io sia anti-tecnologica, e finivano su quanto sia riservata e poco incline a farmi elogiare e riconoscere (come ho scritto nel post su Facebook, non tutti si dimenano in mezzo alle piste, c'è anche chi fa conversazione ai tavoli, o meglio ancora chi in discoteca proprio non ci va perchè preferisce l'intimità di un pub). Lui non si è scomposto, e ha detto che niente aveva più importanza del fatto di tornare a star bene, di recuperare la mia positività, il mio sorriso, me stessa. Aveva ragione lui. A lui leggo le mie pagine prima di postarle, per osservarne le reazioni, perchè lui non mente: lima via qualcosa di troppo (non posso insultare i politici in modo troppo colorito...), e spesso si diverte a cambiarmi i titoli. Insostituibile.
- L'anonimo assicuratore juventino, colui al quale devo il fatto di aver continuato a scrivere, visto che è intervenuto con un commento al 39° giorno quando io mi ero ripromessa di smetterla dopo 40 giorni di silenzio totale; avrà in eterno tutta la mia simpatia.
- L'ultimo commentatore in ordine di tempo, Michele che ama Schifano e preferisce Telemarket a Orler. Posto che non è che a me Schifano non piaccia (trovo solo che su certe cose ci abbia marciato un po' troppo, e dopo tanti anni vengono portate sull'altare anche tante schifezze), e posto che io di Telemarket non amo il modo di porsi, non l'azienda in sè, che importa? Un ragazzo sotto i trenta che dichiara di amare l'arte, che fa discorsi seri, uno che nella vita si impegna e per di più è juventino sarà sempre il benvenuto su Trecose!
- Riccardo Sandonà, che ha pensato bene di controllare cosa stavo scrivendo su di lui e che tutto sommato si è divertito. 
- C'è poi una persona, che non rivelerò, alla quale io stessa in un momento imprevedibile di follia ho confessato questa cosa del blog, e quindi è a tutti gli effetti l'unica persona in Italia (esclusi marito e parenti) che sa che Mariquita sono io. E' una persona che professionalmente seguo e stimo moltissimo, e personalmente non conosco (ancora) bene, ma dalle premesse sembra abbia tutte le caratteristiche per essere da me stimata anche in quel senso lì. Una persona che sento stranamente in profonda sintonia con me (dico stranamente perchè ci ho parlato in pratica due sole volte, che in teoria sono un po' pochine per stabilire sintonie), cocciuta come me, sognatrice come me, sensibile, istintiva, amante delle emozioni che il bello dà e costantemente alla loro ricerca. So per certo che mi ha letto perchè me l'ha detto, e la cosa mi ha fatto arrossire ed imbarazzare mentre ero in coda alla cassa del Supermercato: la cassiera mi ha guardato come una povera idiota, ma non sa che dentro stavo volando, le auguro di poter provare un giorno metà dell'emozione che quella telefonata mi ha dato, magari mentre fa la fila in Posta, giusto per capire quanto mi ha giudicato male. Tra l'altro posso ufficialmente assicurare alla Direzione del Carrefour che la nuova versione della coda unica funziona benissimo, accidenti a loro. Quando c'erano le quaranta casse separate ho ricordi di attese anche di venti minuti, adesso con la coda unica ti metti dietro a una mandria infinita pensando che farà notte e ti si scongeleranno tutti i surgelati prima di arrivarci, e invece miracolosamente dopo 6 minuti e 40 secondi tocca a te. Una volta che la coda mi serve niente da fare: mi tocca mettere giù.
Oltre a tutti voi noti, quindi, a questo punto ritengo probabile che esistano altre persone che, come Stefano, trovano gradevole questa strana compagnia. Allora fate un clic, anche senza rendere pubblico il profilo (ho scoperto con le Impostazioni di Blogger che potete, praticamente io so che ci siete ma gli altri no), non lasciateci qua da soli, me e Stefano, a giocare a briscola in due. Fatemi sapere cosa vi piace e cosa no, sono accettati anche gli interisti, purchè abbiano visitato almeno un museo o una chiesa una volta nella vita. Magari non succede niente, ma mai mettere limiti alla Provvidenza.