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mercoledì 29 gennaio 2014

Tic-tac

Sono in ufficio, rifletto su questo Gennaio che sembra non finire mai. 
E in senso buono, stavolta! 
Ho passato gli ultimi mesi sopra un treno in corsa, senza freni, con il timore sempre fermo in gola che prima o poi un ostacolo improvviso, una curva stretta, una stazione imprevista – abbandonata, magari -  l’avrebbe visto sbandare, colpire, accartocciarsi su se stesso - groviglio di metalli in  burrasca di scintille – con dentro tutte le mie emozioni. E invece niente: ad un certo punto ha rallentato, così, come niente fosse, senza un motivo, e quando l’andatura si è fatta passeggiata morbida io sono saltata giù.
Com’è strano il tempo. Una volta, da ragazzina, pensavo che dipendesse dall’età: non mi passava mai. Le estati erano eterne, solo perché della montagna non te ne fregava niente e sotto sotto non vedevi l’ora di ritornare a casa per rivedere certi occhi e certi sorrisi. Gli inverni erano eterni: cinque anni di Liceo e quattro di Università stampati nella memoria come una vita intera… Forse perché c’era TANTO da vivere, TUTTO da imparare, da assorbire, come piccole spugne inzuppate, piccole menti impregnate. Quando ho iniziato a lavorare il tempo si è messo a correre, sempre di più, tanto da farmi capire quanto mi piacciano, in realtà, le montagne; il passaggio da lavoratore dipendente a lavoratore in proprio, poi, è stato la spinta finale sul pedale, e io ingenuamente ho continuato per un po’ a dare la colpa all’anagrafe.
Sto invecchiando. Ai vecchi, si diceva al Liceo (quando per “vecchi” ovviamente intendi tutti quelli appena sopra i trantacinque), la vita corre perché sentono che gliene manca poca. Infatti parlano spesso del loro passato, attaccati come mitili allo scoglio dei ricordi, e poco del loro futuro, mentre invece tu al Liceo un passato non ce l’hai, hai solamente futuro, un’autostrada di futuro, un firmamento intero di futuro e basta.
Invece non è proprio così. Sto sperimentando quanto il tempo – sempre lui, sempre uguale, tic tac tic tac – possa essere frenetico ed allo stesso tempo dilatarsi all’infinito, a seconda dello stato d’animo. Oggi mi ha quasi preso un colpo perché ero convinta di non aver pagato gli affitti: mi sono svegliata di soprassalto proprio pensando a questo “Oddio, mi sono dimenticata di bonificare gli affitti!”. Gran figuraccia, tra l’altro, nel caso dell’ufficio nuovo, appena arrivata e già gli caccio un insoluto dopo pochi mesi, all’Architetto. E questo perché mi sembrava passato un secolo dall’ultimo bonifico. Tanta vita. Un fiume larghissimo.
Un lavoro come il mio è fatto di scadenze, già solo i quietanzamenti dei titoli ti scandiscono il calendario: penso ai visi dei Clienti dei mesi freddi, quelli che vedi ogni volta con il giaccone pesante e le guance arrossate, e ti viene da domandarti come potranno mai essere con addosso solo il costume da bagno. Idem per i Clienti dell’estate, di sicuro non passano tutto l’anno abbronzatissimi e sudaticci, ma nel mio immaginario vivono così, dodici mesi in braghe corte a fiori e cocktail con l’ombrellino colorato nella sinistra (la destra serve libera per firmare i miei assegni). Mesi di grosse scadenze che ti sembra di impazzire solo a vedere il mucchio alto una trentina di centimetri, mesi di Convenzioni che già ti immagini la coda allo sportello (i visi, ogni anno un anno in più, per tutti). Mesi caldi quasi vuoti. E poi la trafila Ferragosto-Compleanno-Natale, che ogni anno mi stupisce per come corre sempre forte, mai un anno che si stanchi; io e le Ragazze ci guardiamo negli occhi e sentiamo che potremmo già farci gli auguri, ancora con l’aria condizionata accesa: 8-10-12, due larghi passi e vola quasi un semestre.
E poi ci sono le scadenze legate al mondo del lavoro di tutti, non solo del nostro: affitti il cinque, contributi il quindici, stipendi il trenta, come una filastrocca da bisbigliare cadenzando, dodici mesi dodici. Ho passato gli ultimi mesi in cui pagavo gli affitti e DOMANI era già un altro mese, ripagavo gli affitti e mi chiedevo: “Ma dov’è finito, ad esempio, Settembre? Cosa ho fatto esattamente? Cosa mi sono persa?”. Sapevo, certo, di aver fatto molto, ma non avevo conservato pensieri importanti, non avevo vissuto al punto da far DILATARE il tempo. E’ l’aspetto peggiore dello stress: non la gastrite o l’ulcera, non il mal di testa, non la sensazione di nervi a fior di pelle sempre addosso. L’aspetto peggiore è il tempo che scappa, scappa e ti dice “prova a prendermi” mentre tu sei con i piedi immersi in due blocchi di cemento. Separati, per carità, mica devi saltellare. Ma che pesano come due dannati.
Questo Gennaio invece, improvvisamente, passeggia sornione. Fa la differenza, è la differenza. Ho pagato l’affitto all’Architetto il cinque, e c’è ancora una settimana fino al prossimo cinque. Sette giorni, lunghissimi. Miriadi di cose sono successe, cose piccole e cose grandi. E me le ricordo tutte, le ho vissute tutte, le ho gustate, assaporate, centellinate, come quand’ero una piccola spugna al Liceo e non avevo ancora capito quanto mi piacciono le montagne. E’ incredibile quanto la frenesia e l'ansia riescano a comprimere il tempo (e non il contrario, non è il tempo compresso a procurare ansia, come si tende a credere quando si vuole calare la colpa a lui) e la serenità interiore sia in grado di dilatarlo. Amo alla follia questo tempo dilatato. Amo la serenità che me lo fa vedere così. Amo chi, questa serenità, me la insegna un pochino alla volta.

domenica 12 gennaio 2014

Ai blocchi


Blocco dello scrittore una cippa. Non foss'altro perchè io non sono uno scrittore: un paio di centinaia di post nati per scommessa non possono definirmi tale, oppure tutti gli scrittori veri di questo mondo (quelli che scrivono per mantenersi, che hanno la parola "scrittore" e non "assicuratore" sull'apposita riga della carta di identità) avrebbero tutte le più sante ragioni per offendersi a morte. Ho solo atteso per un po', meditando e facendo altro, conscia del fatto che il non essere effettivamente uno scrittore mi manlevava dalla sgradevole sensazione che mi prendeva lo stomaco ogni qualvolta, in questi mesi, mi sono seduta alla tastiera e non avevo la VOGLIA di scrivere. Una sorta di giustificazione emotiva.
All'inizio è stato solo ed esclusivamente il trasloco, che io con tutta probabilità avevo sottovalutato: va bene, avevo frignato un po' tra me e me per tutta la parte psicologica dell'abbandonare QUEL luogo, mi ero pure incavolata non poco per le trafile burocratiche degli allacciamenti delle varie utenze, dimenticandomi completamente, per esempio, della linea ADSL - a mia scusante, il Solerte Tecnico di turno mi aveva assicurato che era robetta da pochi giorni, senza sapere che la politica commerciale del Provider è "chiudi il contratto molto vecchio/apri un contratto nuovo uguale al vecchio come prestazioni ma che costa il triplo", e l'equazione dà come risultato "il cliente si arrabbia e cambia Provider" - così siamo rimasti senza collegamento internet per un mese intero (sembra impossibile quanto la rete sia ormai diventata parte di noi e delle nostre vite: eppure lavoravamo, grazie alla intranet aziendale, ma non avere l'accesso al web ti rende come l'assetato nel deserto). Tuttavia, l'ufficio nuovo stava venendo fuori un vero gioiellino e quindi mi sentivo felicissima. Solo DOPO aver finito il trasloco - e quando ho riavuto la ADSL - ho scoperto un mare di siti, forum e blog della serie "Il trauma da trasloco", "Sopravvivere al trasloco", "Come affrontare un trasloco senza traumi", "Come gestire il trauma da trasloco" e via discorrendo. Allora mi è saltato addosso, il trauma. A me, che ho cambiato un'infinità di case, da non avere più spazio per le etichette sulla patente, senza manco dire bai. Nemmeno una delle volte. A me, che Stakanov non è degno di sciogliermi i legacci dei sandali (giusto per capire la distanza, non perchè voglia fare paragoni azzardati...). 
Sarà che abbiamo fatto tutto in due da soli, a ore perse, cominciando da infiniti scatoloni pieni di ante e viti (e nuovi debiti, ma niente mi elettrizza come un ambiente nuovo con mobili nuovi), e finendo con infiniti giri di furgoncino a noleggio stracarico di cartelline, espositori, piante, libri. E quadri. E vita. Ci abbiamo messo due mesi, di ore perse, ma sarà che ce l'ho fatta, contro ogni previsione, a non interrompere nemmeno per un giorno l'apertura al pubblico. Sarà che alla fine, mentre stavo cominciando a tirare il fiato, mi è piovuto addosso Dicembre con il suo normale carico di lavoro abnorme, e ho realizzato che Novembre era rimasto al palo. L'avevo lasciato lì, indietro, solo soletto. Sarà che il mio nuovo collaboratore, sotto Natale, ha a sua volta realizzato che questo non è proprio il lavoro per lui - ma francamente, chi se lo piglierebbe volontariamente un lavoro come questo, in un periodo come questo, a parte chi crede che fare l'assicuratore voglia dire stare seduto dietro ad un tavolo telefonando e/o mandando qualche mail, ed ecco che improvvisamente tutti decidono di correre ad assicurarsi da te, e di colpo il conto in Banca, per qualche incredibile alchimia, si ingrossa da solo, cioè probabilmente quello che credeva lui, dopo tutto? Sarà che alla fine qualcuno dalla Direzione mi ha detto che quest'anno avevo avuto "un decremento" (ma va! Un collaboratore che se ne va portandosi via tutto un archivio fotocopiato, se non ti porta a fine anno un qualche decremento o è un completo idiota o sei un completo idiota tu che te lo sei tenuto vicino per quattordici anni!), e se "mi ero accorta". Insomma, qualcosina ho mollato, lo ammetto. Giusto per crogiolarmi sulla frase che mi ha detto l'Architetto mio vicino "ma questo ufficio non sembra neanche un ufficio, sembra una casa", che non so bene se intendeva essere una critica o un elogio, ma in realtà non me ne fregava niente perchè era esattamente così che volevo venisse fuori: come una casa, per me, per le Ragazze, per i Clienti che entrano e fanno ooohhh come i bambini di poviana memoria. Tutti, nessuno escluso (anche il ragazzo di colore cicciottello che fa il padroncino e ci porta la roba della Direzione, e mi frega sempre le Galatine dalla ciotola, se le sceglie, e lascia lì le altre caramelle) - ma è solo merito della Parigi di Claudio Cionini, proprio lei che sta in cima al mio recente post "Roma, esordio", perchè stava in effetti a Roma, un tempo "fa" che sembra due vite e che adesso qui da me ti sprofonda in un mare di grigi, azzurri, bianchi lavoratissimi appena entri (enorme, bellissima, una nave da crociera tutta crettata che avanza in un placido mare di asfalto e di storia), e lo sapevo che sarebbe finita così, come i grandi amori, così immensi, e in fondo in fondo così prevedibili, soprattutto quando hai qualche anno sulle spalle. 
Ho tirato il fiato, anche perchè nessuno mi punta una pistola alla tempia per scrivere, e non sono nemmeno pagata per farlo. Volevo aspettare una goccia, un'emozione improvvisa. Poi è successo l'imprevedibile: il mondo è saltato dentro a Trecose, proprio mentre Trecose rallentava (o magari è proprio per questo, che è riuscito a prenderlo al volo e a saltarci dentro). Sono stata linkata tre volte, in una girandola di appassionati d'arte di vario genere, e il contatore delle visite è schizzato verso l'alto, con tutta una serie di commenti (qui da me, o nei forum da dove arrivavano) che mi ha fatto un pochino tremare le gambe. Tanti, belli. Da gente sconosciuta e da gente che conosco (per nome o di persona). Commoventi, spiritosi. Diversi, interessanti (per inciso, cari ragazzi, lo so che scrivo tanto, ma a ME il dottore non ha mai ordinato di iscrivermi a Twitter, fino a prova contraria: mi dilungo e mi piace stiracchiarmi digitando come un gatto che si lecca la coda finchè diventa lucida lucida. Come una perla rara, quale so di essere, per lo meno per qualcuno). Quando vedi che c'è un sacco di gente che ti legge e ti segue ti prende lo stomaco, finisce che senti un po' la responsabilità, magari solo la responsabilità di non dire stupidaggini. Oppure non ti senti più libero di dire tutte le cose che ti passano per la testa, perchè non è più esattamente la briscola mia e di Michele. Devo dire che ho riflettuto molto, in questi mesi, anche per una serie di avvenimenti e circostanze, sulla "libertà del blogger". Su cosa può essere scritto e quindi letto e diffuso e cosa no. Su quanto il tutto resti effettivamente "privato", o forse invece esattamente il suo contrario (posso esprimere giudizi drastici? è meglio che taccia? si rovinano rapporti umani per una parola scritta o non scritta?). E su quanto in Italia siamo carenti di Leggi degne di tale nome che regolamentino la stampa, figuriamoci il web, ma questo è tutt'altro film e uscirei dal mio già vasto seminato.
Il punto è: perchè oggi mi è straripata nuovamente la voglia. Come un bisogno fisico, un prurito alle mani. L'onda che arriva, magari non enorme, anzi per niente enorme, per niente tumultuosa, così fa anche meno paura. E' un'onda morbida, calda, spumosa, giusto la coda di un'onda - trasparente, cristallina - che s'allunga sul bagnasciuga spegnendone l'oro, scurendolo, impregnandolo di umori bruni per un attimo, perchè poi, ritraendosi subito quasi con timidezza, lascia che il sole faccia riaffiorare la sabbia asciutta, sulla punta dei crinali, in un accartocciarsi di polvere.
Oggi sono tornata da uno dei miei ultimi, più che abituali weekends a Firenze - un altro film ancora, di cui dovrò assolutamente parlare. Cose da farci il pieno, di emozioni da scrivere, e paradossalmente non me ne lasciano il tempo, proprio perchè per me il tempo della scrittura era associato alla domenica, magari nel pomeriggio, quando tutto è finito e tutto deve ancora cominciare. 
A Firenze abbiamo visitato - io e lo scudiero, indissolubili nonostante la febbre - la Mostra sulle Avanguardie Russe a Palazzo Strozzi. Bella Mostra, ma in sè lasciamola un attimo in disparte, non siamo ancora arrivati, anche se manca poco. Per la seconda volta (e la prima era stata da Giorgio Celiberti a Villa Manin) ho vissuto il percorso a "misura di bimbo". E' una cosa nuova per me, evidentemente per il fatto che non ho figli sono fuori da tutto ciò che riguarda i nuovi modi di fare didattica come il famoso fagiano di monte. Ho ricordi di visite scolastiche (alle scuole medie e al Liceo, non certo prima) alle nostre ville venete, a chiese e cattedrali, a collezioni permanenti dei Musei, a città d'arte in generale, come di spensierate giornate fuori dall'edificio, risate e chiacchiere con negli occhi qualcosa di indubbiamente bello, ma senza doverci riflettere sopra più di tanto. Roba che studiavi e poi la andavi a vedere. Mostre temporanee manco a parlarne. Gran Cinquecento, Seicento, Settecento (figuriamoci, a Venezia...), giusto un salutino veloce all'Ottocento, ma più in là buio pesto, notte fonda. 
E poi, un bel pezzetto dopo i quaranta, mi trovo il percorso della Mostra di Celiberti spiegato dal gatto di Celiberti in tanti piccoli pannelli a cinquanta centimetri da terra. Per i bambini delle elementari, quindi. E adesso, a Firenze, ancora una volta piccoli pannelli per esseri umani molto bassi (non più un caso isolato, allora, dato dalla ben nota caparbietà e lungimiranza dei friulani). Ogni sala un suo perchè, spiegato in modo semplice ma nemmeno più di tanto, perchè hai voglia a chiedere ad un bambino di otto anni di riflettere e decrivere l'importanza di un suo "viaggio sentimentale". Presume ci sia un livello altissimo di interazione, di approfondimento, di aiuto al ragionamento. Credo sia fondamentale ABITUARE i bambini all'arte, anzi, più che all'arte in sè (che fortunatamente nel nostro Paese abbonda, ne siamo praticamente circondati, al punto - a volte - di dimenticarcene e darla un po' troppo per scontata) al contatto con l'arte, allo scambio, al DIALOGO con essa. Va bene visitare la centrale del latte, vedere come si forgiano gli animaletti in vetro, tenere in mano un pulcino vivo prima che anche l'ultima fattoria sparisca, oppure avvicinarti con tremore ad un trattore vero, sporco di terra, con le ruote posteriori alte il doppio di te; sono tutte esperienze formative, per un bambino. Ma ti renderanno poi, in fondo, un avvocato migliore? Un bravo commercialista (o assicuratore, o medico, o elettricista, o panettiere)? Alla fine, ti prepareranno ad essere una PERSONA migliore? Dialogare fin dai sei anni con un'opera d'arte sì, ne sono certa come sono certa di esistere. 
In un paio di sale mio marito (ma era colpa della febbre, di sicuro) ha detto che non avrebbe saputo cosa rispondere, cosa pensare, lui, adulto, di fronte a certi inviti alla riflessione. E' stato bellissimo: ho cominciato come sempre a testa alta, leggendo - come sempre - ogni più piccolo centimetro di spiegazione per essere umano di statura media, e poi passo dopo passo l'ho abbassata, perchè anche io volevo il mio "viaggio sentimentale", e volevo che la maestra mi chiedesse cosa ho provato quando ho lasciato la mia città per trasferirmi altrove, e anche cosa sogno di notte e cosa mi fa paura e cosa no. Piccoli passi per grandi uomini di domani. Scoprire l'arte destinata ai bambini è stata la mia onda del Duemilaquattordici, spero solo la prima. Mi ha tolto un po' di incertezze, mi ha messo in mano nuovamente la chiave della porta di Trecose, direttamente nella toppa. Voglio che sia così! Voglio vedere le cose dal basso, magari meno cose, ma QUELLE POCHE poterle capire tutte, fino in fondo, affinchè siano mie e con me diventino di molti. Voglio tanta arte a piccoli sorsi. Voglio poche persone, ma alle quali abbandonarmi totalmente. Voglio ripartire con i Clienti che hanno deciso di rimanere con me, nonostante l'effetto-fotocopia, perchè il "viaggio sentimentale" sia comune. Voglio essere semplice dentro, perchè questo aiuta ad essere profonda fuori.