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sabato 18 ottobre 2014

Matthias Brandes














Sabato scorso io e mio marito abbiamo mangiato un boccone-al-volo con Paolo Orler. 
Il che è sempre un'esperienza interessante, perchè Paolino è - oltre che una carissima persona - un ragazzo estremamente curioso ed attento, di quelli che vanno via veloci, e mangiando con lui ti ritrovi sotto un fuoco di domande di fila, tutte che possono avviare discorsi di ore, mentre invece il tempo è sempre quel che è, e quindi bisogna concentrare gli argomenti. 
Argomenti, peraltro, che spaziano da quante volte sono stata a Medjugorje e come l'ho sentita e vissuta, ogni singola volta, al fatto che mi ricordo ancora bene a memoria la promessa di matrimonio (con la sua importante e difficile verità, che va ben oltre la basica fedeltà, principalmente quando parla di "onore"); da quanto buona è la carne da Olindo soprattutto quando segue le tagliatelle con il tartufo, a quali Polizze assicurative coprono i danni fatti dai muletti sulle macchine nel parcheggio aziendale. Praticamente alla fine sei felice e soddisfatto, hai sudato come una bestia e ti senti come quando passavi gli esami fondamentali all'Università. 
Perchè questo particolare cappello: perchè, tra le tante domande a bruciapelo di Paolo, una mi ha colpito dritta in fondo al cuore, ed è stata argomento di discussione a casa per vari giorni a venire, oltre che in quel momento a tavola. Dal prosciutto arrosto di Olindo (eravamo all'antipasto) Paolo ci ha chiesto: " Avete già avuto la crisi di rigetto per l'arte?". Così, come se fosse la cosa più naturale dell'Universo. Intendo, non ci ha chiesto se l'avevamo mai avuta, ma se l'avevamo GIA' avuta, facendo supporre che - prima o poi - in ogni collezionista il rigetto arrivi. Dà da pensare, soprattutto se detto da uno che in mezzo all'arte ci è nato, che gattonava in magazzini stracolmi di opere di ogni genere, che ha conosciuto personalmente artisti tra i più importanti (e probabilmente a molti di quelli locali è stato in braccio, agli inizi degli anni Settanta). 
In effetti noi ci siamo guardati ed abbiamo risposto di no, sul momento: niente crisi, niente rigetto, anzi. Ne avessimo di soldi per continuare a comprare un sacco di roba, oltre che per visitare Mostre e Musei! Lui ci incalzava, non convinto: "Ma davvero non c'è neanche un'opera che avete comprato e che adesso vi dà sui nervi?" Non c'è niente, tra le cose di cui ci siamo circondati, di cui ci siamo - sotto sotto ma anche sopra sopra - pentiti? A pelle direi di no, ma urge un distinguo: è evidente che, come chiunque approcci il mondo dell'arte inteso come acquisti di opere partendo da zero da parte di comuni mortali, all'inizio abbiamo fatto degli errori. Nel senso che in piena fase bulimica non ti rendi conto che i soldi non sono eterni, e quindi spendi senza razionalità. Vedi/compri. Vedi/compri. Quando arrivi a maturare un minimo di coscienza, e quindi saresti in grado di riconoscere un'opera per la quale varrebbe la pena di tirare fuori quell'Euro in più (per il nome, per il soggetto, per come è realizzata, per la storia...) rispetto a quella che è e sempre resterà pura e semplice decorazione, hai finito la riserva aurea. Quando cominci a pensare con la tua testa (in base a quello che hai letto, hai visto, hai affinato durante un percorso) e smetti di bere come acqua santa le parole di chi sta in televisione, hai già fatto ricorso al credito al consumo come minimo un paio di volte. Noi però abbiamo fatto scelte, credo, intelligenti sotto un aspetto specifico: abbiamo sempre comprato cose che ci piacciono. Anche Gastone Biggi - pace all'anima sua! - che poi alla fine ho venduto, dopo tutto il teatrino di Cagnola; nella produzione di Biggi, era comunque un'opera che trovavo interessante, con un suo perchè. Anche Salvatore Emblema, che indubbiamente ho pagato una follia e mezza rispetto al suo reale mercato, ma che tuttora mi affascina per la sua ricerca, per la sua essenzialità, per i suoi colori-non-colori; e poi da quando Franco Ristori me l'ha incorniciato tutto in ruggine con un'intelaiatura su misura che sembra un vecchio cancello con tanto di rivetti, non c'è persona che passi per il mio ufficio e non ne sia incantata. Magari perchè non sanno chi è, ma tutti sbavano. Fanno domande, toccano i catrami, le terre, si stupiscono (e a dire il vero quando spiego che la cornice è un'opera d'arte a parte, e che non c'entra con l'artista, un po' ci restano male).
Per concludere il secondo cappello: è indubbio che se potessi tornare indietro utilizzerei molti dei miei soldini onestamente guadagnati per acquistare altre cose che adesso conosco, rispetto a ciò che ho preso "a scatola chiusa", ma non detesterò mai nulla di ciò che ho appeso alle pareti, perchè sono comunque tutti pezzi che mi colpiscono, che mi hanno in qualche modo trasmesso qualcosa. Non ho mai scucito mezzo Euro per alcunchè che fosse solo puro investimento: l'investimento A BREVE in arte non esiste, e io non ho di certo davanti tutto il tempo che serve per far rivalutare gli artisti davvero vincenti di domani.
Detto ciò, l'argomento "rigetto" è stato molto gettonato nelle nostre chiacchierate familiari successive, non foss'altro perchè il giorno dopo, cioè la domenica, c'era Art Verona da visitare, biglietti già presi e appuntamenti fuori del cancello già fissati con più di un amico. Qui Paolo potrebbe averci preso: se non mi stancherò mai di vedere Chiese e Musei (anzi!), se le Mostre che progetto di visitare e mi perdo - siano esse grandi e istituzionali, oppure di qualche artista minore da riscoprire silenziosamente - sono ogni volta una sofferenza (compensata da quelle poche che mi ritaglio, pur di nutrirmi dentro, alla faccia dello stress-da-lavoro-correlato), se la Ricerca del Bello è per me l'undicesimo comandamento, ammetto che ultimamente le Fiere mi vedono meno entusiasta. Sono sempre piacevoli occasioni di svago in cui ci incontriamo e ci confrontiamo con amici provenienti dalle regioni vicine, ma le trovo un po'... stagnanti. Rappresentative di un mercato asfittico, infastidito e fastidioso, in cui i giochi - spesso - sono già fatti, alla faccia nostra. Con quel ripetersi sempre uguale dei soliti nomi, sembra l'appello in una classe di secchioni: Accardi, Adami, Aubertin, Biasi & (Kinetic) Company, Pistoletto, Scanavino, Simeti... (secchioni, si badi bene, di certo ottime presenze di livello, ma al limite dell'effetto-fotocopia tra uno Stand e l'altro, anche nei prezzi). E con tutto ciò che dovrebbe rappresentare il NUOVO, le proposte, i giovani/giovanissimi - tanti, tantissimi per fortuna - a cifre fuori dal mondo, a idee fuori dal mondo: sperimentazioni senza fine, qualche fotografia, pittura poca. Roba da sospirare di tristezza, e correre subito da Paolo Orler a comprare un paio di bei tappeti dei suoi per tirarsi su il morale.
Invece, girovagando per una Art Verona piacevolmente frizzantina rispetto a quella dello scorso anno (nella speranza che sia un bel segnale), una scoperta. Un amore a prima vista. Questa crisi di rigetto che non arriva, e che anzi mi scalda il cuore sempre di più. Lui si chiama Matthias Brandes, tedesco del 1950 (grande annata per i vini ed i corniciai) dotato di chioma bianca con folte sopracciglia. Assolutamente a me sconosciuto, altrettanto assolutamente per me delizioso. 
Atmosfere sospese come in un sogno, tra pennellate cariche di caldo e di vento: case colorate di terra, realistiche e semplici come in un disegno di bambino (il classico quadrato con la porta sotto, le due finestrelle sopra ed il tetto a spiovere), ma trasportate in una dimensione fuori del tempo, che le vede volare in aria come aquiloni senza peso, rincorrendosi in un cielo di perla, o appoggiarsi di lato, l'una all'altra, in un movimento un po' stanco che fa il verso al terremoto, ma senza danno. 
Alberi - cipressi, all'origine, probabilmente - divenuti più cicciottelli, densi densi, a bisbigliare qualcosa di misterioso alle finestre, a spirare un soffio di vita dietro ai mattoncini. Ombre nette, squadrate, ritagliate a scalpello, inquiete nel loro lambire la geometria circostante. Un paese intero che sorge da una tovaglia bianca, ancora con le pieghe addosso della stiratura, gettata sul tavolino della metafisica, in un unico, avvolgente, immenso silenzio. 
E che lavorazione! Sabbie, graffiature, ruvidità, superfici di pietre vive, di graniti, di calce che si solleva, di bianco nei rosa, di grigio nei verdi cupi. Non erano quadri, erano richiami di sirene per chi - come me - sente prepotentemente il fascino di CERTA pittura: era come se Armodio, De Chirico, Magritte, Campigli, Xavier Bueno, Scuffi, Carrà, Lazzaro mi stessero facendo il girotondo intorno (li ho messi tutti insieme, e avrei potuto metterci anche Giotto e Piero della Francesca, volutamente mescolati, senza alcun ordine storico, senza alcun ordine logico, senza alcun riferimento di bravura o di mercato, solo perchè ne sentivo insieme i sussurri in ogni pennellata). Un piccolo richiamo di ciascuno di loro, i grandi e i meno grandi, in un raro risultato di suggestioni, di colori, di ricordi. 
Anche i miei scatti col cellulare alle Fiere sono rari, rarissimi; l'ho già detto, preferisco Mostre e Musei, eppure su Brandes avrei scaricato un rullino, se ancora esistessero, i rullini. Uno intero da trentasei, tanto mi ha coinvolto, sotto gli occhi della bella signora svedese che stava allo Stand, e che già si era stupita tanto perchè la gente continuava a chiederle i prezzi dei quadri che pure erano scritti nei cartellini (ma non siamo abituati, noi, qui, a tanta trasparenza, in questo mercato dell'arte, in questa continua fiera con la f minuscola, fiera del fasullo che trascura i talenti e del denaro fa girandole senza una logica). Hanno dovuto trascinarmi via per finire il giro, perchè per me lui già valeva il biglietto: mi sarei fermata lì per ore, a sognare ad occhi semichiusi, annusando la fragranza della campagna toscana che veniva fuori dal silenzio di quelle tele e mi andava dritta dritta all'anima. 
Per poi scoprire, tornata a casa e fiondata in rete come un pesce per capire chi era e cos'aveva fatto questo Brandes finora, e come avevo potuto farmelo scappare così, che le sue ispirazioni principali - in un eterno gioco di onirici paesaggi - sono le terre toscane e la laguna veneta (ho trovato il MIO pittore, allora!), tant'è che vive da anni esattamente a venti chilometri da me, e spesso le sue casette in-animate spuntano da misteriose acque alte verdazzurre che hanno il sapore della laguna, o si affiancano ad enormi navi pietrose senza occhi, ricordi di un mare antico, del quale puoi solo indovinare se ti attende per una partenza, oppure se si allontana dopo l'agognato ritorno. 
Non varrà mai milioni di Euro, Matthias Brandes, ne sono certa come sono certa di quanto mi piace come dipinge. Del resto, non ha inventato niente di nuovo, e oggigiorno i grandi risultati premiano chi si è spinto oltre certi paletti, chi ha provato a parlare in linguaggi diversi. Probabilmente continuerà a rimanere uno sconosciuto ai più, anche se io, personalmente, mi sono già messa in moto per fargli spazio a casa mia. Presumibilmente farà pure sorridere - con tenerezza, o una certa commiserazione - i grandi esperti, coloro che tengono le fila dell'attuale mercatus. Ma una cosa è assolutamente indiscutibile: finchè dipingerà così, a me, che secondo l'insulto ricorrente sono "una-da-Cascella" (e comincio ad andarne fiera, a questo punto, alla faccia dei teschi e delle bestie morte!), che amo davvero ogni cosa sia appesa alle mie pareti, che mi macino chilometri in auto o in treno o in aereo solo per il profumo di un quadro, che non nascondo il nodo in gola quando, poi, mi ci emoziono davanti, il rigetto non verrà mai.