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domenica 31 maggio 2015

Oggi parla.../20

... San Francesco d'Assisi:

"Chi lavora con le sue mani è un operaio. Chi lavora con le sue mani e la sua testa è un artigiano. Chi lavora con le sue mani, la sua testa e il suo cuore è un artista"


A dirla tutta, io non sono così sicura sicura che questa frase possa davvero essere attribuita a San Francesco, come fa il Grande Web con una certa sicumera. A naso non me lo vedo, per quanto Santo tostissimo e poliedrico, affrontare questo tipo di argomenti, e, anche restando in tema di studi più che di "naso" (per quanto affinato da anni e anni e anni di catechismi e parrocchie), non penso che ai tempi suoi fosse già concepibile la differenza tra artigiano e artista (lo stesso termine "artista" credo sia molto più tardo). Insomma, la lingua italiana era ancora in germe, stava sbocciando dal volgare proprio lì lì, se non ricordo male. Credo sia più probabile che affibbiarne la paternità a lui le dia un lustro del tutto particolare (certo che, se fosse davvero sua, ci sarebbe un motivo in più per ammirarlo); e comunque sotto sotto non mi importa chi l'ha detta realmente, facciamo che vorrei averla detta io perchè è esattamente in sintonia con quello che penso io.
Mi andrebbe anche di fare un giochetto un filo polemico, perchè tra tutti i sedicenti "artisti" che conosco (di persona o sulla carta) in effetti alcuni sono ARTISTI, altri sono artigiani (più o meno bravi, a questo punto), altri operai, per quanto di tutto valore rispetto ad altri ancora che non sono neanche quello, perchè non se le sporcano nemmeno, le mani. Non saprei, poi, dove andare a parare con certi "provocatori" che, in effetti, la testa la usano (e bene anche, ci muovono intere masse!), ma la cosa si ferma lì. 
Tuttavia, mi sa che sarebbe un giochetto pericoloso...


domenica 24 maggio 2015

Carpe diem (privilegi quotidiani)

L'altra mattina, sul presto, commentavo al telefono con una persona che condivide un po' d'anima con me giorno per giorno, il mio post "Io e Van Gogh" (http://trecose.blogspot.it/2012/01/io-e-van-gogh.html), scritto una vita fa, e vissuto due. In realtà lo spunto della discussione era venuto fuori dalla Metamediale di Antonio Nunziante, che questa persona non conosceva; io accennavo all'episodio in cui ero stata "ospite" dell'organizzazione di Nunziante, giusto per spiegare la mia esperienza diretta con loro, e da lì alla rilettura di quel vecchio post il passo è stato breve. 
Mi capita spesso di ritornare sui miei post più datati, giusto per darmi una spolveratina personale al percorso emotivo che ha visto Trecose nascere e svilupparsi; devo dire che alcuni mi piacciono ancora parecchio (un minimo di autocompiacimento è fondamentale, altrimenti smetterei di scrivere), altri decisamente meno, ma comunque rappresentano una parte di me, il filo conduttore di una crescita importante, e non mi sognerei mai e poi mai di andare a modificarli, correggerli, o peggio ancora farli sparire. 
Rileggendo "Io e Van Gogh" ho sorriso di me, direi nello stesso identico modo con cui sorrido guardando le mie foto da bambina, o i primi disegni, o i pensierini delle elementari, cioè cosa che mi capita abbastanza spesso perchè grazie alla pazienza maniacale di mia mamma (unita alla sua caparbietà senza pari che ho avuto la fortuna di ereditare direttamente per via genetica, ed alla fissazione per le tradizioni di famiglia che abbiamo un po' tutti noi imbevuti del ramo materno) sono in possesso di tutti i miei quaderni delle scuole elementari dalla prima alla quinta, di buona parte dei temi delle scuole medie, e di una quantità innumerevole di disegni di ogni tipo, dall'asilo in poi. Per non parlare degli album di fotografie di trentacinque anni di vita della mia famiglia, dal matrimonio dei miei in poi, che occupano un intero scaffale di uno dei miei profondissimi armadi guardaroba (ci starebbero un sacco di scarpe e di borse!), e che ho voluto portare via con me quando me ne sono andata di casa, facendo sorbire anche a loro ben cinque traslochi. Arrivano fino ai matrimoni dei miei fratelli, quegli album, e poi basta, perchè a quel punto il fiume della nostra famiglia si è diviso in quattro piccoli ruscelletti per lo più digitali, alimentati da nuove vite e nuove esperienze; all'arrivo del digitale io ho cominciato ad avvertire una certa insofferenza, quasi come se quel tipo di testimonianza non fosse degno di essere raccolto e conservato, e mi sono rivolta all'indietro con tutta me stessa, alla ricerca di un passato ancor più passato. Ricordo di aver anche raccontato, in un altro post sulle mie tradizioni familiari, quanto facessi la tira allo scatolone delle foto degli avi che mia zia ultraottantenne aveva in casa, non me ne importava un tubo di nient'altro di "ereditabile". Invece la cara zietta, che ci seppellirà tutti, sta invecchiando a braccetto con Herr Alzheimer, e nonostante sia guardata a vista da badanti di varia provenienza pian pianino sta saccheggiando il mio patrimonio genetico: ormai lo scatolone è sparito, e mia mamma casualmente rinviene qua e là, in cassetti sparsi, in frigorifero, mischiati al terriccio delle piante, ritagli di vecchie foto, pezzettini, collages e strappi come esperimenti alla Frankenstein: il volto con l'elegante cappellone di una bisnonna incollato sul corpo di un bisnonno, bambini di fine Ottocento incatenati per manina a genitori non loro, e via così. Il mio sangue che se ne va a rivoli, mi sento un po' come chi ha assistito al rogo dei libri nella Bebelplatz del '33. 
Comunque, giusto per tornare a bomba e ai miei sorrisi, rileggermi in quel post mi ha fatto tenerezza. E non parlo di come scrivevo (post tutto sommato molto brevi, perchè il mio percorso era ancora all'inizio e sviscerarmi non era per niente facile: sapevo, sentivo di avere dentro un mare di emozioni e di aggettivi, di palpiti e di avverbi, ma trovare la via per farli uscire sembrava, all'epoca, un'impresa); parlo proprio del contenuto. Se chiudo gli occhi e ripenso a quella serata ricordo perfettamente ogni passo, ogni gesto, e ciò mi dà conferma di quanto fosse stata PROFONDA, in effetti, l'emozione di cui parlo; però la sento lontana lontana, e, contemporaneamente, mi vedo così ingenua e così limpida (a dirla tutta anche di Nunziante, posso dire ora con una punta di malizia, parlo troppo ingenuamente).
Si vede nettamente che i miei contatti con il mondo dell'arte, fino ad allora, erano stati principalmente i Musei e i libri di storia (in effetti frequentavo pochissimo anche le Fiere). Non era ancora iniziato quell'incredibile viaggio che, nei mesi e negli anni seguenti, mi ha poi portato a conoscere di persona, nel bene e nel male, galleristi, critici e artisti. Nel bene, sicuramente, perchè è stato proprio grazie agli Orler e all'incontro, nei loro studi, con Giovanni Faccenda, che Trecose è uscito allo scoperto, che sono stata pubblicata, che ho potuto crescere e conoscere di persona, nel tempo e in diversi luoghi, artisti come Scuffi, Armodio, Cargiolli, Stefanoni, Licata, Meggiato, Possenti, Cionini, Celiberti, Berlingeri, Rabarama, Cinzia Pellin, Luciano Pasquini, Massimiliano Cacchiarelli Principi (e non nomino chi mi è stato solamente presentato con stretta-di-mano-e-via: parlo di persone vere, che ho incontrato più volte, che ho ascoltato, a cui ho fatto domande, che ho abbracciato!). Con alcuni il rapporto è andato oltre la semplice conoscenza ed è diventato stima ed amicizia, ma anche solo il fatto di poter comprendere più a fondo, di poter ascoltare qualcuno a cui la vita ha concesso un tale DONO (la capacità di CREARE qualcosa, la volontà di raccontartene la nascita e l'evoluzione, la condivisione di visione, impegno, pensiero) non è cosa da tutti. E nel male (e non mi riferisco di certo agli "antipatici", che pure ovviamente ci sono, nel mucchio di galleristi, critici ed artisti, come in tutto ciò che si compone di umanità), nel male perchè, a volte, alla fine si tende a dare tutto un po' troppo per scontato.
Scrivo di domenica sera, di ritorno da Firenze per uno degli usuali (e non dovrebbe mai diventare tale, proprio per non perdere di fascino!) Tè da Franco Ristori. Il terzo dedicato a Nino Tirinnanzi. E sento dentro questa cosa tanto prepotentemente, che la devo buttar giù, a costo di andare a letto tardi e poi domani cominciare la settimana con le occhiaie. 
La sento addosso, stasera, la fortuna di poter frequentare certe persone così SPECIALI, e mi rendo conto che, probabilmente, dovrei ringraziare più spesso chiunque sia il "ringraziabile" (in cielo o in terra) per aver permesso tutto ciò. Perchè non è per niente "normale", non è per niente "usuale" essere di casa in quella Bottega, anche se per me è così, da tempo. Non è la NORMA, per la gente di tutti i giorni, spostare con nonchalance un De Chirico da un banco ad uno scaffale. Dare una pulitina al vetro di un Antonio Bueno lasciandolo disteso, perchè è così grande che in piedi pesa. Compilare il modulo dell'assicurazione da chiodo a chiodo per un Soffici da piangerci sopra mentre parte per una Mostra museale, giusto perchè Ristori ha il polso in gesso e non può farlo lui. Tenere in mano capolavori del Novecento come se fosse la cosa più naturale dell'universo, tipo, che ne so, allacciarsi le scarpe o lavarsi i denti. Andare a mangiare un boccone di corsa e trovarsi spalla a spalla con Giuliano Vangi, tanto per dirne una pazzesca di oggi a pranzo, che se ne accorge (LUI!) e viene a stringere la mano a Franco Ristori. 
Tirinnanzi è profondamente "sentito" a Firenze, è stato molto amato. C'è in moltissime case, e ancora lo cercano, lo coccolano, lo ammirano (cosa che con gran mio stupore - io vengo da fuori, e vedo tutto con l'occhio di "fuori" - non avviene per nulla, ad esempio, con Vinicio Berti, che ha goduto della stessa "riscoperta" grazie al lavoro certosino di Giovanni Faccenda e alla potenza televisiva di Orler TV, ma che a Firenze fa fare a molti, ancora, la boccuccia storta). Mi colpisce da morire, più di tante altre cose che riguardano Tirinnanzi, quanto sia amato appunto dalla gente comune. Io me ne sto lì intere ore, un po' perchè non mi va di stare in albergo, un po' perchè mi piace da matti, e queste persone entrano, si guardano intorno, chiedono timidamente informazioni anche a me, perchè evidentemente al posto del cuore tengo appiccicato il cartellino della Bottega. Giovani, meno giovani, adulti, anziani, normali. Tre signore, amiche. Un pensionato con il figlio. Una coppia di anziani. Due signori soli soletti alla chetichella. Quattro amici un filo spocchiosi. Un tipo che avrà avuto più o meno la mia età, che aveva accompagnato la moglie e il gatto con una zampetta rotta dal veterinario, e doveva aspettare che uscisse. Gente di tutti i giorni, insomma, gente che magari deve fare i conti con il fine mese, il più delle volte; il pensionato mi ha quasi commosso, perchè si vedeva lontano chilometri che avrebbe voluto prendersene uno, magari piccolino (gli sorrideva, mi ha anche chiesto un parere tra due, uno con le nuvole primaverili, e uno con un'atmosfera di ghiaccio invernale che sapeva di freddo ma aveva una luce unica sullo sfondo, lattiginosa, chissà dove l'aveva vista Tirinnanzi una luce così), ma deve prima tornare a casa e valutare quanto può esporsi, perchè poi ci sono le bollette da pagare e le spese da fare. In compenso con il figlio ho parlato di Licata. E poi l'uomo del gatto, che non ama i quadri con i personaggi colorati e preferisce le campagne con i casolari, e quindi ha esattamente i miei gusti per quanto riguarda i soggetti di Tirinnanzi (infatti gli ho fatto subito guardare il mio, che sta a pagina 205 del Catalogo Generale, per vedere cosa diceva), con il quale ho chiacchierato a lungo di quanto bello sia poter comprare qualcosa che ti piace e ti emoziona, senza dover pensare al fatto che possa valere, domani, oggi, o mai, dal punto di vista economico. Un altro tipo di valore, incommensurabile.
Tutta gente che ha condiviso con me qualcosa, ha accarezzato i dipinti ora con gli occhi, ora con le dita, timidamente, ed è tornata alla sua vita "normale" con in gola un sospiro, mentre io me ne stavo "normalmente" con in mano il listinello dei prezzi, in mezzo ad un girotondo di Tirinnanzi che regge il confronto con quelli esposti a Palazzo Pitti. 
Lo so che questo post sta venendo fuori un po' senza senso, di quelli senza capo nè coda, e probabilmente la prossima volta che mi verrà voglia di scrivere unitamente al sonno ed alla stanchezza del viaggio sarà il caso di rimandare l'esperienza. Ma volevo darmi un compito, subito subito, un obbligo morale, quanto meno per i prossimi giorni, finchè qualcuno dei miei assicurati non mi farà saltare i nervi (cosa che non accade raramente, di questi tempi): sentirmi una privilegiata. Non lamentarmi. Ripensare a ciò che provava la "me" di qualche anno fa solo perchè era stata invitata in un Museo senza l'allarme. Essere conscia di aver avuto, negli ultimi quattro anni, una vita molto, molto fortunata. Che valeva e vale la pena di vivere al mille per cento.

domenica 3 maggio 2015

Mistero buffo su Claudio Cionini

Il fatto che Trecose sia momentaneamente (ecco, "momentaneamente" è proprio la parola esatta) inattivo, non vuol dire assolutamente che lo sia anche io.
A parte il lavoro, che mi assorbe, lo ammetto, molto più di quanto vorrei e, soprattutto, molto più di quanto meriti la gente che mi circonda - intesa come la nuova veste tecnologica e subdolamente sprintosa della mia Mandante (che non ha ancora capito cosa vuol dire essere assicuratori - e del resto come potrebbero capirlo, visto che fanno questo mestiere da appena 52 anni e non da 136 come quelli di prima, senza contare che per i primi 30/40 si sono limitati ad essere l'emanazione di un partito politico più che realmente una Compagnia di Assicurazioni), e anche intesa come tutta quella cospicua fetta di Clienti, peraltro minacciosamente sempre più grossa, davvero convinti nel profondo che io sbavi e faccia chissà quali altre porcherie pur di acquisire e/o mantenere contratti con premi sempre più risicati e con il sinistro già garantito; a parte ciò, dicevo, un pochino di tempo riesco ancora a ritagliarmelo per attività piacevoli.
Onestamente, riguardano tutte l'arte (come potrebbe essere altrimenti?), e quindi in fondo anche gli uomini, visto che nel contemporaneo - arte sviluppata da artisti viventi con mercanti viventi - le due cose vanno a braccetto. Insomma, sempre sulle mie Tre Cose mi impantano, ma in fondo mi sta bene, sono felice così.
Assieme a questo post ne metto un altro, "Magia: Atto Sesto" (non so se sta sopra o sotto, il confezionamento del Blog riesce ancora a sorprendermi, ma in ogni caso andrebbero letti in coppia), che è un pezzo scritto da me e pubblicato nel Catalogo dell'ultima Mostra di Claudio Cionini, a Pietrasanta. 
Franco Ristori mi ha scosso dal torpore creativo in cui ero sprofondata chiedendomi di scrivere qualcosa per lui, e a una persona come Franco Ristori non si dice di no, mai. Perchè è generoso, perchè è di parola, perchè ha ancora dei valori, e perchè lo merita. Ho passato anni incredibili, da quando ho iniziato a collezionare arte, in cui credo di aver fatto il percorso tipico del collezionista "di pancia", molto romantico e poco milionario: credi a tutti - vuoi bene a tutti - compri da tutti - vai dappertutto - fai indigestione di parole - azzeri i risparmi - pensi da solo - non credi più a nessuno - ti stanno tutti sulle scatole. Più o meno. 
Ecco, io ho conosciuto Franco quando ero all'incirca tra il "azzeri i risparmi" e il "pensi da solo", e se a lui continuo a credere e sulle scatole non mi sta un motivo ci deve essere. E poi, quando vado a trovarlo e mi nascondo nell'angolo più piccolo della sua già minuscola Bottega, riesco a non pensare mai al lavoro, alla Mandante subdola e ai Clienti fastidiosi. Lui mi coccola, e mi lascia toccare e parlare con tutti i quadri che tiene appesi o infilati in qualche buco, come se fossero miei (aspetto fondamentale, visto che ho già chiarito come lui sia entrato nella mia vita artistica dopo il "azzeri i risparmi"). Anzi, a volte io lo gufo, sperando che certe meraviglie non riesca a venderle a breve, così da potermele ritrovare la volta successiva, per finire le nostre mute storie, invece che saperle traslocate in qualche casa, tristi tristi senza di me. Per una volta questa crisi che ancora non accenna a lasciarci stare, e che lascia senza voglia di comprare anche chi ci era abituato nel midollo, tutto sommato mi fa comodo, perchè io un Sironi degli anni buoni, o un Antonio Bueno a fondo nero 50 x 70, o un Ardengo Soffici da buttarsi per terra, mi sa tanto che non me li potrò mai permettere (mi sono permessa un gran bell'Emblema, nella fase "vuoi bene a tutti", che poi Ristori mi ha geneticamente modificato tutt'attorno per farlo rientrare nel "pensi da solo").
E' stato incredibilmente interessante affiancare Franco nella genesi di questa Mostra; io avevo già scritto per quella di Roma, e anche parlato all'inaugurazione (come ho raccontato qui: http://trecose.blogspot.it/2013/09/roma-esordio.html), ma era stato tutto più casuale e visto come da lontano. Qui invece ho vissuto tramite lui tutto il percorso dall'inizio, dall'impaginazione del Catalogo alle schermaglie pseudo-amorose per ottenere i patrocini delle Istituzioni (farei prima ad assicurare una multinazionale del petrolio!), dai nomi di chi ci doveva scrivere a quelli di chi ci doveva parlare. Per non parlare del titolo, che solitamente viene deciso dal Curatore in base al contenuto del proprio saggio inserito nel Catalogo, mentre a Franco quel "Le città visibili" di Riccardo Ferrucci andava di traverso ogni volta che pigliava in mano le bozze. 
Che "Le città invisibili" di Italo Calvino sia un romanzo straordinario per la nostra letteratura del Novecento è un dato di fatto che nessuno può permettersi di smentire, come altrettanto il fatto che lo abbiano letto tutto in ben pochi (io stessa, lo ammetto, nonostante la mia Laurea in Lettere, per giunta con il corposissimo indirizzo in Letteratura Italiana e non in Storia del Cinema, Arte Medievale o altre amenità simili, mi sono limitata a lunghi brani estrapolati), proprio per la sua particolarità. E' una sorta di romanzo d'élite, anche all'Università, figuriamoci alle scuole superiori dove è già tanto se arrivi agli esami di maturità facendoti di corsa la trafila Foscolo-Manzoni-Leopardi e Pascoli-D'Annunzio & Co. con la lingua di fuori.
Giusto perchè ogni tanto riemerge in me l'animo da insegnante di italiano mancata, spieghiamo che è un romanzo in cui Calvino gioca volutamente con i suoi lettori (in effetti ne ha scritto più di uno fatto così, si vede che si divertiva parecchio, probabilmente il più noto ai mortali di oggi è "Se una notte d'inverno un viaggiatore") creando capitoli "spacchettabili": è come un mazzo di carte che possono essere mischiate, creando ogni volta percorsi diversi e finali diversi. Nasce come una sorta di dialogo/monologo di Marco Polo alla corte di Kublai Khan (interrogato dal curioso orientale sul suo mondo di provenienza), e descrive città su città praticamente inventate di sana pianta. Città "invisibili", aggettivo sul quale Ferrucci gioca un po' per dire che Cionini invece, le sue, le rende evidenti, e ben identificabili, ai nostri occhi. Il che, per uno che conosce il libro e ne ha letto almeno qualche brano, è anche un doppio senso carino, suvvia, non mortifichiamo il Curatore. Ma per chi non sa neanche dell'esistenza di questo romanzo (e bisogna essere onesti ed ammettere che ce ne sono parecchi, in questo secondo gruppo), come titolo di una Mostra sembra piatto, sembra pasta in bianco, purè e stracchino, non ispira e non evoca un bel niente, con Ristori che scalpita. 
Per fortuna che da Internet, nella massa multiforme di dati nozionistici e da cruciverba che sciorina, gli è saltata fuori quella citazione spettacolare dal libro in questione che è: 

"Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone"

e che pareva cucinata apposta per il titolo di una Mostra. 
Occhei, è triste sapere che tutti ci riduciamo a Wikipedia, che nessuno legge più il Novecento italiano, che non ci sono più gli intellettuali di una volta, ma siamo pratici: dopo l'inaugurazione, quando tutti questi bei faccini intellettuali se ne saranno andati a casa felici e contenti con le loro copie del Catalogo non pagato sotto il braccio, dopo le strette di mano e le foto e i video, ci vuole qualcosa che colpisca e che attiri dentro gente che li compri, questi benedetti quadri. Su questo concetto io, personalmente, ci ho girato attorno parecchio; Claudio Cargiolli, che era presente, è venuto anche a stringermi la mano e a ringraziarmi per averlo detto, tenerissimo lui, perchè sembra che troppo poca gente se ne accorga. 
Senza considerare, comunque, che la frase sul deserto è metaforicamente perfetta non solo per le città in quanto tali, ma anche per la personificazione della città in ciascuno di noi: non dimentichiamo che Cionini dipinge città vuote, senza umanità presente, appena appena con qualche autovettura fugace al cui interno non si intravede mai nessuno, quindi possiamo tranquillamente dire che le personifica, che quelle città siamo NOI, ognuno con la nostra storia e il nostro vissuto, chi si sente Roma, chi Parigi, chi New York in base alle nostre sensazioni passate, presenti o desiderate per il futuro... Insomma, se avessi avuto tre ore a disposizione avrei potuto costruirci sopra un discorsetto mica da ridere, giusto per far vedere che anch'io sono capacissima di parlare di un bel niente ma che fa tanta scena. Inoltre, il nostro "essere" è così come lo crediamo, oppure è la vicinanza con ciò che ci circonda (il nostro "deserto" tutt'attorno) che plasma, dall'esterno, l'essenza che crediamo di avere? Io e l'Altro, l'eterno dilemma. Io città, l'Altro il deserto, oppure viceversa?



(Oggi io mi sento tanto questa N.Y.)


Da qualche parte su YouTube gira anche il video di quella sera, un paio d'ore di registrazione compresse in venti minuti, che rappresentano l'evoluzione delle mie figure di m/da iniziate col tristemente famoso "microfono sotto la faccia" alla Mostra di Vincenzo Balsamo al Chiostro del Bramante, secoli fa, anche se devo dire che questa volta è stato divertente (sostituivo a tutti gli effetti Roberto, braccio destro di Ristori, che aveva una validissima scusa per non essere presente data da moglie incinta con termine scaduto, poteva arrivare il fiocco azzurro da un momento all'altro). 
Questo cameraman di Toscana TV deve essere un pochino più bravo di Giuseppe De Luca, perchè mi fa sembrare infinitamente meno bassa e cicciottella (mi sono beccata da più di qualcuno un entusiasta "caspita, sembri davvero una figa, non si direbbe", complimento gaffoso che è sempre tutto un programma e al quale io sono abbonata da circa vent'anni, precisando che per assumere quell'aspetto ci metto più o meno un'ora e mezza, e mezz'ora a festa finita per rientrare nei miei usuali panni, manco fossi fagocitata da un alieno). 
Aggiungo altresì che sembro affetta da demenza senile, perchè praticamente ripeto parola per parola - o quasi - le stesse cose col cappotto addosso e senza cappotto addosso, ma a mia discolpa devo dire che mi ero preparata la scaletta per il primo intervento (quello senza cappotto, montato in video per la sua metà finale), mentre l'intervista tête-à-tête mi ha spiazzato, e si sente. Ho ripetuto le stesse cose cannando anche qualche verbo, convinta che uno dei due interventi venisse eliminato, mentre alla fine me li sono ritrovata in video uno dietro l'altro stile copia/incolla. I puristi del "public speaking" direbbero che è meglio la versione con tante pause e gli avverbi così sofisticamente nasali della versione "panico", ma io in realtà sono quella più alla mano senza il cappotto, quella che coinvolge il pubblico sgamando i commenti bisbigliati, quella che lascia in sospeso le frasi, quella che rimbrotta i Senatori perchè le fregano gli argomenti. 
Poco male, i complimenti a Franco Ristori li ripeterei all'infinito, se li merita tutti, sono straconvinta che se Claudio Cionini è arrivato a questi livelli il merito è anche dei consigli di Franco, da un lato, e della serenità economica che è riuscito a garantirgli, dall'altro. Averne, nel mercato dell'arte, di gente come lui che caccia puntualmente ciò che serve (TUTTO ciò che serve), senza contare cosa è venduto e cosa resta ammucchiato in garage, del resto i pittori per continuare a dipingere devono mangiare a fine mese anche loro, mica si cibano di "conto vendita", preferiscono le bistecche e la pastasciutta, come gli impiegati di banca, o i serramentisti, o gli infermieri.
Vissuta la Mostra, con le ultime creazioni di Cionini, a mio parere una più bella e più intensa dell'altra,  mi resta solo un dubbio, che è lì che gira da un pezzetto, e per sussurrare il quale ho anche chiesto il permesso a uno dei diretti interessati, perchè non mi sembrava galante raccontarlo. 
Io non capirò mai, e giuro mai, perchè gli Orler non abbiano dato una possibilità a Claudio Cionini. Ci siamo andati vicini, vicinissimi, c'erano venticinque tavole sue di diverse dimensioni e soggetti (città e fabbriche, queste ultime probabilmente più "difficili" ma profondamente più affascinanti) arrivate nei loro studi, e poi niente. Il buio totale. Nominare Cionini da Orler è diventato come evocare Belzebù in una chiesa. 
Magari un giorno, improvvisamente e con tanto di fasci luminosi e musica d'altare, mi verrà svelata la Verità, che sicuramente NON è che non piace al venditore di turno o al fratello Orler di turno, come mi è stato detto, ma mica siamo deficienti qui, eh. Da che mondo è mondo, il venditore vende quello che la proprietà gli dice di vendere, altrimenti non mi spiegherei certe schifezze sovrumane che passano, ogni tanto, quando capita, per gli studi di Favaro; certo, forse Dario, a volte, si può permettere dei no (e vanno accettati perchè lui è in assoluto il numero uno dei televenditori italiani), anche se non posso fare a meno di chiedermi se DAVVERO abbia in camera sua i collant di Ala appesi al muro. Probabilmente anche Carletto a volte si impunta (secondo il mio modestissimo parere senza gli stessi meriti) perchè fa tanto professor-style, ma di certo non credo lo faccia Giovanni Faccenda, che è diventato espertissimo di arrampicata sul liscio e riesce tuttora a vendere l'invendibile, a volte non so come ci riesca, e all'epoca delle venticinque tavole non lo faceva Franchino Raccioppo, il più improbabile dei teleimbonitori che però quando era in vena avrebbe venduto anche la giacca, sopra ai quadri. Giovanni, fra l'altro, nella sua vita precedente ha curato quattro Mostre di Cionini, trovo improbabile che possa non piacergli, che abbia scritto e parlato solo per compenso. Magari lo fai una volta, del resto è il tuo mestiere, ma non quattro, sarebbe diabolico. 
Immaginare discussioni fra i fratelli Orler se un pittore sia valido oppure no sul piano artistico, per non macchiare il buon nome dell'organizzazione, è pura fantascienza (vogliamo fare dei nomi e dare un voto al valore?! No, non vogliamo, diventerei cattiva): gli affari sono affari (te lo insegnano alle elementari, guadagno = ricavo - spesa, vale per le mele, per le magliette e per le opere d'arte!), se sono mercanti svegli, vendono ciò che si vende bene, bello o brutto che sia, basta che piaccia a chi compra. 
E Cionini piace, caspita se piace! Io in ufficio ne ho più di uno, e non c'è persona - di qualunque livello, provenienza, ceto sociale, preparazione scolastica, e chi più ne ha più ne metta - che non lo ammiri. Chiaramente ognuno ha i suoi motivi, mi sono sentita dire anche che ammiravano il suo uso del colore, gli accostamenti più dolci e soffusi, perchè ricordava quello di certe borse e di certe scarpe (sic), ma se la persona che dice questo ha comunque duemila Euro da spendere per un quadro, per quanto mi riguarda scarpe e borse restano motivazioni personali validissime. Nessuno di noi (parlo per prima perchè io ne ho cinque) è così ingenuo da pensare di farci i miliardi, un domani, ma siamo seri, non lo penso neanche di Marcello Scuffi, di cui adoro la pittura con tutta me stessa! Però quella di Claudio, come quella di Marcello, è pittura che mi fa STARE BENE quando mi ci piazzo davanti, per un momento che non va calcolato perchè il bello è esattamente questo: fermare il tempo. E' pittura VERA, con le sue colature, le sue sabbie, i suoi chiaroscuri, i suoi lampi di luce, e adesso che dipinge Firenze un po' più spesso di una volta, anche con i suoi riflessi d'acque, i suoi tramonti, le sue cupole lontane. 
Aspetto non trascurabile, anche se ben più terra-terra, costa relativamente poco. Visto che i veri danarosi ormai se li contendono tutte le Gallerie fino allo stremo (e poi i veri danarosi vogliono la certezza dell'investimento, altrimenti a cosa serve essere danarosi, quindi per loro uno come Cionini resta robetta, o sei De Chirico o niente), non vedo perchè non prendere in considerazione un pittore giovane con un listino accettabile da presentare ad una platea vastissima e sconosciuta come quella televisiva, che non se la fila nessuno ma che un bel quadro in casa magari se lo piglia volentieri. E poi, si sa, da cosa nasce cosa. 
Un pittore giovane ma non più esordiente, già molto bravo ma con margini di cambiamento se te lo tiri su bene, con soggetti che non siano già stati visti da Orler (un metropolitano non mi risulta l'abbiano mai presentato), con uno stile suo che non cozzi con nessun altro nome di scuderia, che dipinga abbastanza per una distribuzione decente (perchè Armodio è immenso davvero, e Cargiolli pure, ma restano la ciliegina sulla torta per pochi privilegiati, e chiedere loro di produrre di più, di "fare numeri", significa snaturarne l'anima e il lavoro). 
Un paio di Clienti Orler amici miei ce l'hanno, Claudio Cionini, in casa e in ufficio, perchè ce l'ho portato io assieme a Franco Ristori, in furgone, e fare agli Orler questo piccolissimo cornetto mi è dispiaciuto solo a metà. Perchè nella vita bisogna svegliarsi, quando serve, e riconoscere i treni buoni da quelli lenti, a volte, può fare la differenza. Da entrambe le parti.

Magia: Atto sesto

"Si dice che ogni persona è un'isola e non è vero,
ogni persona è un silenzio,
questo sì, un silenzio,
ciascuna con il proprio silenzio,
ciascuna con il silenzio che è"

J. Saramago

Mi piace interrogarmi, spesso, sui legami fra le persone. Su cosa sia quel qualcosa che rende speciale una determinata amicizia, un amore duraturo, un sodalizio professionale. 
E, anche, se sia più facile (più bello, più semplice) farli durare, certi legami, quando si è molto simili - così da condividere ogni momento importante con la stessa intensità - piuttosto che molto diversi - così da trasformare ogni giornata in confronto ed arricchimento reciproco. Osservo le persone, e cerco spunti di riflessione.
Mi è successo anche quando ho incontrato Franco Ristori, e tramite lui ho presto conosciuto (è tappa obbligatoria, come il rifugio per chi percorre un sentiero montano) Claudio Cionini; poichè la Bottega Ristori è ricolma delle tavole crettate di Claudio, di ogni dimensione, e nelle pennellate di Claudio - nei suoi vasti cieli, nei suoi spazi di madreperla -  rivedo molti sguardi di Franco, molti sogni, molte sue esortazioni, ed un'infinità di racconti di vita vissuta. 
Sarebbe decisamente semplicistico etichettarli entrambi come "toscani" (quand'anche geograficamente corretto per chiunque - come la sottoscritta - provenga da un'altra regione, per giunta non confinante), non foss'altro perchè vivono e trasudano gli umori, i sapori, le storie antiche del territorio di due province totalmente diverse, direi a tratti contrapposte, e probabilmente l'accostamento non farebbe piacere a nessuno dei due. Anche nel mio Veneto, d'altronde, i "confini d'anima" tra le sette province sono rigidissimi e invalicabili.
Scavando un po' più a fondo, e convinta che ciò che ha tenuto uniti per anni un giovane pittore piombinese e un accigliato Maestro artigiano di Firenze fosse comunque una sottile somiglianza e non una lampante diversità, mi sono resa conto di questo: sono entrambi uomini che parlano poco e amano molto.
Timido e schivo Claudio Cionini, mi lascia sempre il delicato sospetto se quella barba appena accennata (così incerto, nel lasciarla libera o nel respingerla) serva il più delle volte a nascondere le guance fattesi improvvisamente purpuree davanti ai complimenti che, sempre, i suoi lavori suscitano. Perchè è così, si badi bene: la sua è pittura che strappa sempre l'emozione, il plauso unanime, l'interesse vivo dell'addetto ai lavori come dell'anonimo passante che si ferma per attendere l'autobus, e poi lo perde, quell'autobus, con il respiro a mezz'aria e lo sguardo rapito nel groviglio lineare, nel luminoso baluginio dei tetti di New York. O negli squarci rosa di Londra. O nell'umidità di una pioggia berlinese: alla fermata di Via Gianni in Firenze l'autobus si aspetta sempre di spalle, del resto. Il viso sprofonda in quella vetrina, oltre la quale c'è solo poesia. Anche tra i fruitori del trasporto pubblico di Firenze, ne sono assolutamente sicura, si creano legami invisibili, tra chi si attarda per un ultimo, fuggevole saluto ad una lieve Parigi, alle sue colature di grigio, alle sue nubi gonfie imbrigliate tra gli edifici storici, alle sue auto appena accennate, pennellate irriconoscibili di solo movimento, modernità di metallo che trattiene il fiato, anch'essa, davanti al silenzio del marmo. 
Parla davvero poco, e fa fatica a raccontarsi, Cionini, anche se incalzato da chi vorrebbe conoscere la sua storia di artista così giovane eppure così talentuoso, con un vissuto di Mostre di peso, presente in collezioni importanti, anche di luoghi istituzionali prestigiosi. Da chi vorrebbe sapere da dove nasce questa attrazione così violenta per la fabbrica prima, e la città subito dopo, e non "la Città" in generale, ma specifiche città, metropoli, di continenti diversi. Vere, individuabili, reali sebbene filtrate attraverso attimi improvvisi di Claudio, perchè lui ama travasarsi, quasi liquefarsi in quelle strade, nei palazzi, che diventano essi stessi persone. 
Ecco l'amore: l'amore di Cionini per la pittura in sè, che diventa bisogno di trasferire nel disegno e nei colori, sulle tavole, nel gesto, ciò che egli non vuole spiegare a voce, perchè la parola darebbe a tutto solamente un senso, e non i due, tre, quattro sensi che invadono tramite, appunto, la pittura. A cominciare dal tatto, con le dita che possono sentire la preparazione della tavola, gli strati di colore, l'alternanza dei coaguli come passaggi pedonali. 
L'amore per la ruggine delle fabbriche, per la loro anima scura e celata, per quelle solitarie architetture spezzate, che rappresentano una parte del suo passato, e comunque testimoniano il legame con la sua terra d'origine, un legame di viscera, un cordone ombelicale che non si taglia neanche quando prendi il volo per l'Altrove. 
L'amore per quelle città europee, australiane, americane, ciascuna delle quali ha rappresentato per lui un punto di partenza e, contemporaneamente, un punto d'arrivo. 
L'amore per Edith, compagna di vita, anch'ella persona dagli sguardi densi, che chiude il suo cerchio in una Berlino sospesa nel tempo.
Franco Ristori incontra Claudio Cionini per la prima volta nel 2005, nell'ambito dell'iniziativa benefica "Colazione da Ristori", da lui organizzata nel cuore della sua Bottega, e lo sente, lo sceglie in mezzo a cinquantacinque pittori. Vede l'"oltre" in un ventisettenne che ha ancora l'Accademia nelle dita. Da quel momento diventa il suo mentore, guidandolo, tracciando un solco da seguire per incanalare talento e passione affinchè non vadano sprecati, ma maturino lentamente, come frutta al sole. Non troppo presto, per evitare la puntura dell'acerbo, nè tardi, quando il succo ormai cede, ed evapora. Franco Ristori sa bene come gestire talento e passione perchè egli stesso li incarna, silenziosamente, a Firenze, da quasi cinquant'anni. Uno degli ultimi, forse l'ultimo vero Artigiano nel senso più squisitamente profondo del termine, che trae l'etimo da Artes: le arti. Non è solo produzione manuale: è creazione, è sperimentazione. E' studio di forme, materiali e colori, da adattare di volta in volta, da cucire addosso, come un vestito alla pelle, alle curve, al calore, sulle vene. Tutto questo senza sprecare fiato, senza orpelli, senza quei titoli onorifici o accademici che, normalmente, per la gente comune rappresentano il termine di un percorso di studi. Il percorso di Franco Ristori - che uomo comune non è, e non sarà mai - è fatto per non finire: sta tutto nell'abilità dei suoi occhi, nel vedere prima degli altri come un manufatto prenderà forma, e delle sue mani, per una realizzazione perfetta. Uno dopo l'altro, dopo l'altro.
Amore senza freni, totalizzante, anche il suo, per una vita di lavoro spesso duro, ma che lo porta con umiltà ad avvicinarsi ai più Grandi, a tenere fra le mani Picasso, Schiele, De Chirico, Munch, Balla, Carrà, Sironi, a studiarli, per trasferire i loro segreti, per tramutare l'esperienza in consigli. Senza inutili chiacchiere, senza grida sguaiate, è proprio per Claudio Cionini che crea per la prima volta cornici rugginose. Sono esattamente gli altiforni di Piombino, sono le fabbriche abbandonate che egli tanto ama quando ritratte dal "suo" ragazzo come cupi alieni, immoti ed insaziabili, che gli ispirano quelle polveri sottili, rossastre: sembrano corrodere voracemente vecchie ringhiere, mentre mantengono intatta la leggerezza del legno, e donano alle opere di Claudio una vitalità segreta. Qualche grammo di Claudio Cionini, giusto il peso dell'anima, rimarrà sempre in quelle sabbie screziate che tanto appassionano, e che vestono, a loro insaputa, molti altri artisti, in tutt'Italia.
Eccoli nuovamente riuniti oggi, questi due appassionati toscani taciturni, in una città della Toscana, Pietrasanta, che è per molti aspetti culla d'arte, centro di riferimento internazionale di artisti e studiosi. Personalmente ne conservo, come metafora ricorrente, una memoria silenziosa: ricordi di un'estate assolata ed immobile, ricordi di piazze deserte come specchi, limpide come necessità di sopire le urla che troppo spesso soffocano il mondo dell'arte contemporanea, che ne profanano la ricerca, lo studio, l'impegno ed il talento, sull'altare del puro profitto. 
Una nuova Mostra, dopo Fiesole, Firenze, Arezzo, Pontedera e Roma, vede incrociare ancora le loro storie e le loro vite. Claudio Cionini è decisamente più adulto, Franco Ristori è diventato nonno (forse, grazie a ciò, anche un po' meno corrucciato). 
E io attendo, nuovamente, certa, lo sprigionarsi dell'alchimia.

Etica e morale

Sono settimane che mi dibatto tra dubbi etici. 
Il lavoro va male, è ora di ammetterlo con franchezza; praticamente in tre anni il portafoglio dell'Agenzia si è ridotto di un terzo, spanna più, spanna meno. L'Infame ha dato il suo apporto, non c'è dubbio, ma non è assolutamente solo causa sua, anzi, non voglio dargli un'importanza che non ha. Tra l'altro, sono più che certa che in tempi meno duri non avrebbe fatto che danni minimi, da lieve venticello, nonostante il palese furto di contratti, nomi e dati vari; purtroppo, in annate magre come queste andare da un Cliente sventolandogli sotto il naso la fotocopia della sua Polizza e affermando che gliela rifarai uguale-uguale-identica al venti-per-cento-in-meno ha indubbiamente un certo appeal. Anche tra i Clienti più attenti e svegli, intendo, che in tempi non sospetti gli avrebbero sbattuto la porta in faccia. Figuriamoci tra la gente più semplice, tanto per usare un eufemismo, che non andrà mai a controllare che sulla Polizza dell'officina in effetti sì, gli stai facendo spendere il venti per cento in meno, ma semplicemente perchè stai assicurando il venti per cento in meno sui capitali (è molto insidioso, confrontare il premio pagato l'anno scorso mentre i capitali che assicuri sono quelli di dieci anni fa...). Oppure su determinate garanzie che prevedono una franchigia di 250 Euro, gliene schiaffi una da mille. Sento la bile che secerne in abbondanza, quando parlo di lui, quando anche solo PENSO a lui, io che credevo che - dopo più di due anni - non dico mi fosse passata, ma almeno si fosse un po' sopita. E' che in questi giorni si è rifatto vivo, da alcuni Clienti molto affezionati a me, e questa idea che dopo due anni ancora non se ne vada a cercarsi Clienti propri, nella zona ben distante da qui dove lavora adesso, ma sia di nuovo lì, a pescare nel mio acquario tanto è gratis, mi fa meditare propositi omicidi.  
Comunque, dicevo, non è causa sua. E' che - dai e dai e dai - è proprio cambiata la mentalità della gente, in generale. Prendiamo ad esempio le Compagnie on-line: io non le ho mai considerate delle vere concorrenti, perchè si rivolgono ad una clientela completamente diversa da quella che entra in un'Agenzia. Attenzione, non è nella maniera più assoluta una questione di prezzo, anzi, devo dire che più le Compagnie dirette (almeno, le tre-quattro maggiori tipo Genertel, Genialloyd, Linear, che sono realmente degli ottimi marchi) si organizzano con servizi e assistenze complete, e propongono Polizze senza strane rivalse e limitazioni, più i loro premi assomigliano ai nostri, è proprio la scoperta dell'acqua calda. E poi, ultimamente la Compagnia per cui lavoro io ha tariffe RCA talmente basse che spesso riesco anche a starci sotto, ai premi delle On-line più serie, sempre che io lo voglia, ovvio (già spiegato un milione di volte che lo sconto generalizzato a pioggia a tutti i Clienti, anche a quelli che vogliono solo il "minimodelminimodelminimo", è nefasto: lo sconto, anche di entità importante se serve, va conservato per quei Clienti che, nei limiti delle loro possibilità, scelgono di diventare "globali" per l'Agenzia, vale a dire si fidano dei nostri consigli e tutelano anche altri aspetti della propria vita oltre ad ottemperare ad un fastidioso obbligo di legge per le proprie autovetture). 
La differenza tra il Cliente-tipo delle Compagnie dirette e il Cliente-tipo delle Agenzie è puramente comportamentale: il primo trova che arrangiarsi, inserire tutti i suoi dati nel computer, dialogare tramite un software sia figo, l'altro invece no, lo vive con ansia, non sa come cavarsela. Non c'è altro. E va benissimo così, per carità! 
Sicuramente il primo dei due ricade spesso in una fascia di popolazione più giovane, ma mica sempre. Il primo è quello che ama potersi collegare a Internet alle due di notte di domenica, per farsi un preventivo su e via, giusto perchè ha la comodità nelle mani: ha ragione da vendere, io di certo non apro l'Agenzia alle due di notte perchè gira la fregola a lui. Il primo AMA l'autonomia, l'indipendenza, la comodità data da Internet, a costo molte volte di mettersi a studiare argomenti non suoi per informarsi più a fondo e in modo responsabile (qui ovviamente faccio riferimento solo a quelli bravi, che si aggiornano sulle pieghe delle condizioni contrattuali nei singoli siti delle varie Compagnie, che leggono tutto prima di flaggare le caselle, non certo ai molti deficienti che si limitano a usare - e male! - qualche pseudo comparatore che alla fine ti vende qualcosa che non sai cos'è ma che al comparatore fa guadagnare bei soldi, visto che il comparatore altro non è che un Broker come un altro). Il secondo invece o non ama proprio per niente Internet, o non sa usarlo bene, o non lo trova comodo, o lo trova troppo impersonale, chi lo sa, magari tutte queste cose insieme. Magari ama semplicemente chiacchierare un po', o ha più tempo libero nei nostri orari di apertura. In ogni caso, il secondo sceglie di FIDARSI, perchè assicurarsi presso un'Agenzia (di qualunque marchio, in qualunque posto del mondo) significa sotto sotto esattamente questo: scegliere un professionista nelle cui mani mettere i propri rischi, i propri risparmi, le proprie tutele. Scegliere di delegare una specifica persona (che sai che non ti prende in giro e non lo farà mai) affinchè sia lei a leggersi tutte le condizioni contrattuali, a valutare i vari tipi di coperture, e in base a quanti soldini puoi effettivamente destinare alla prevenzione ed alla protezione della tua famiglia - mica sempre tanti, mica sempre tutti, devi pur mangiare e vivere - ti proponga qualcosa che davvero ti serva. Certo, se poi riponi male la tua fiducia e/o credi alle parole di professionisti non degni di questo nome che ti tirano il bidone diventa un problema, ma nè più nè meno di quando succede nelle amicizie, o negli altri aspetti della vita. E' un rischio che si corre quando si dà fiducia a qualcuno, l'alternativa è non fidarsi di nessuno e diventare da autodidatti veri esperti di assicurazioni, impresa, credetemi, che può rivelarsi ardua. 
Quindi: sono tantissimi anni che esistono le Compagnie dirette, e più di tanto non ci siamo mai pestati i piedi a vicenda, perchè i nostri rispettivi Clienti-tipo sono sostanzialmente e profondamente diversi, equamente e amabilmente suddivisi, un po' di qua e un po' di là. Fin qua, tutto chiaro.
Invece, il perdurare di questo strano e melmoso stato di difficoltà che ci circonda, il restringersi sempre di più dell'imbuto in cui ci troviamo tutti, ha sparigliato le carte. La gente si è incattivita, si è fatta aggressiva, si guarda le spalle e morde, morde, morde sempre. Faccio un esempio, racconto un episodio reale che per me è stato il cosiddetto "fattore scatenante" per i dubbi etici e per tutto ciò che ne consegue e ne conseguirà: l'altro giorno è passato in Agenzia un nostro Cliente. Cliente-tipo nostro, persona di cui sappiamo tante cose, uomo molto dolce e buono che qualche anno fa è rimasto vedovo ed ha pianto la moglie a lungo, dopo una dolorosa malattia. E' stato male, è uscito dalle spire della depressione grazie ad un amico che l'ha letteralmente trascinato fuori casa, a zonzo nelle sale da ballo, facendogli prendere lezioni, finchè in una di queste sale ha incontrato una brava signora (sola anche lei) che è diventata la sua nuova compagna. E' evidente che mica l'ho fatto spiare di nascosto quest'uomo, tutte queste cose ce le ha raccontate lui, volontariamente, nel tempo, assieme alle difficoltà dei due figli per il lavoro, la figlia femmina, bellissima da concorso (le tiene nel portafoglio, le foto delle selezioni per Miss Italia), e il maschio, che lavorava in un'Azienda che assicuravo io e adesso vive all'estero perchè si è innamorato. Questo per mettere in evidenza il tipo di rapporto di confidenza che c'è tra lui e il suo assicuratore, cioè io. 
Occhei, l'altro giorno è venuto da me con un preventivo della concorrenza (ovviamente non Internet, perchè non è QUEL Cliente-tipo), pari a meno di metà di quanto stava pagando lui, e me l'ha dato da guardare: un preventivo normalissimo, con la RCA, l'Assistenza Stradale, e basta. Mentre lui aveva anche, nell'ordine: Incendio, Furto, Grandinate, Vandalismi, Rottura Cristalli, Infortuni del Conducente e Tutela Legale. Praticamente tutto, gli mancava solo la Kasko, ma quella costa, non l'aveva mai voluta considerare. Tra l'altro, nel preventivo che aveva in mano il massimale RCA era il minimo di legge, nella sua Polizza invece tutt'altro, ci girava una quarantina di Euro solo per quello. Facendo i conti con la sola RCA minima e l'Assistenza,  da me avrebbe speso meno rispetto al preventivo che aveva in mano, direi abbastanza meno. Ma lui si è incazzato, ha alzato la voce, si è agitato parecchio e ha pronunciato queste magiche paroline: "E' colpa mia, dovevo svegliarmi prima. Dovevo capirlo che potevate fregarmi". Credo che una pugnalata in piena schiena mi avrebbe fatto meno male. E' su questo che gioca sporco, ancora, l'Infame (anche se il preventivo non era suo)! E' per questo che non c'è più spazio per un assicuratore che sappia e voglia fare il suo lavoro come si deve! Abbiamo cercato di spiegarci reciprocamente, ma eravamo chiaramente su posizioni opposte: lui è convinto che io, consulente in cui aveva riposto la sua totale fiducia, debba fargli spendere A PRESCINDERE meno possibile (me l'ha proprio detto: "Paola, dovevi capirlo da sola, con questa crisi", certo, ma ammetto che non sono telepatica, non ancora, almeno). Io invece sono convinta che, proprio a causa di "questa crisi", se ti fai male o ti ciullano la macchina potresti avere dei problemi ben più grossi di duecento Euro all'anno (o "poco più di di sedici Euro al mese", trasponendolo in questo orrendo linguaggio rateale che ora come ora va tanto di moda). Senza contare che ogni anno ne parlavamo, ne ragionavamo, e lui era sempre stato d'accordo con me (e al limite, se avesse voluto ridurre le coperture al minimo, bastava che me lo chiedesse, mica c'era bisogno di agitarsi!), quindi questa esplosione di sfiducia è emersa, come una bolla velenosa, nell'arco degli ultimi dodici mesi. La "crisi" è andata ben oltre, oltre la manfrina del risparmio, oltre il pensare che risparmiando trenta Euro all'anno sull'assicurazione, o sulla bolletta del gas, si risolva un intero ménage familiare (famiglia composta da quattro persone spesso dotate tutte e quattro di smartphone di ultima generazione): ha intaccato la fiducia nelle persone. Siamo tutti contro tutti. Tu mi freghi, io ti mordo. O ti mordo direttamente, tanto presumo che tu mi possa fregare. 
Vengo al punto, e questa volta definitivamente, promesso. Con queste premesse, se viene a mancare la fiducia di base, viene giù tutto il palco. Fai due conti, e l'Agenzia si riduce di un terzo in tre anni. Di mirabolanti nuove entrate non vedo ombre amiche all'orizzonte, anche perchè ormai siamo tutti presi in questa guerra tra morti di fame, e anche se arriva roba nuova è sempre e solo robetta. Perdi robetta vecchia e arriva robetta nuova. Cosa fa un'Agenzia che ha in organico tre impiegate quando il suo portafoglio si è ridotto di un terzo? Suvvia, il passo è breve e il conto è facile: una deve stare a casa. Subito, presto, perchè se continuiamo di questo passo, se il trend è questo, tra qualche mese non sarò neanche in grado di pagare gli stipendi. E io sto male, malissimo. Sto male perchè vedo disperazione tutt'attorno, e so che ne aggiungerò altra. Sto male perchè continuo a vedere e sentire quelle oscene pubblicità in cui le allegre famigliole sono contente perchè i Famosi Supermercati tengono i prezzi bassi per "aiutare gli italiani", c'è anche il nonnetto sempliciotto che tanto per cambiare ha la calata veneta (chissà perchè, quando c'è il tonto di turno parla sempre senza le doppie), e poi qui da me si stupiscono perchè ottanta-dico-ottanta persone sono state lasciate a casa, da un supermercato. Parla una che non fa l'economista, ma se continuiamo a grattare i prezzi senza fare altro arriveremo ad un punto di non ritorno (a naso direi che dovrebbe essere più logico alzare i salari per aumentare i consumi, possibilmente agendo sull'enorme peso delle tasse sui salari stessi, ma ripeto: mai capita una cippa di economia). Mi sta bene un po' di sana concorrenza, non amo di certo il monopolio (su tutto, dalle assicurazioni al formaggio, dai mobili al salame, dai vestiti alle automobili alle utenze telefoniche alle sigarette), ma fino ad un certo punto: se oltrepasso quel punto, quel margine che permette un guadagno, allora diventa sterminio. Guerra tra i poveri. Abbasso i prezzi ma licenzio, ed inizia una spirale senza fine. La concorrenza va bene finchè crea posti di lavoro, non quando ti attacca alla canna del gas. 
Una deve stare a casa.
Una deve stare a casa.
Una deve stare a casa.
Sto male. 
Non solo perchè, egoisticamente, a me sono sempre servite tutte e tre, così diverse: c'è quella intelligente e precisa, che difficilmente sbaglia quello che fa, ma ai Clienti sembra distaccata e fredda (probabilmente è l'effetto di un'eccessiva timidezza) e quindi ha ruoli da amministrativa pura, che in Agenzia ormai sono poco sostenibili, devono mettersi a vendere anche le sedie, tra un po'. Poi c'è quella che non si capisce un tubo quando parla, però è sempre pronta e disponibile ad ogni nuova iniziativa (salvo sbagliare un po' troppo spesso cose di estrema semplicità spiegate trecentomila volte), e poi è davvero una gran gnocca fisicamente, i Clienti ci fanno la coda, soprattutto d'estate. Infine c'è quella cicciottosa che sa sorridere, che è la più commerciale di tutte e ha sempre saputo usare la parola giusta al posto giusto al momento giusto, che piace un sacco per empatia, però è stanca, parecchio stanca, non ha più tanta voglia di impegnarsi, non sempre fa le cose che le chiedi. Non più; in compenso fa molti più errori. 
Sto male perchè conosco le situazioni di tutte e tre, e so perfettamente quanto ad ognuna serva, questo lavoro, per le motivazioni più disparate, non sempre economiche, a volte anche di impegno personale e mentale, per avere la coscienza di una realtà diversa (spesso più importante, questo, dello stipendio in sè). 
Sto male perchè mi chiedo se serve davvero, arrivare a questo punto. Magari è ora che smetta io, invece. Magari non sono più fatta per questa professione, per questa professione come è diventata ORA. Forse sopravvivono solo i più aggressivi di noi, o i più ballisti, chi lo sa, di certo io sono una che non stressa, non sono aggressiva proprio per niente: non chiamo la gente a casa di sera mentre mangia, non mi piazzo fuori della porta, non forzo la mano a nessuno, mai. In un mondo in cui c'era chi si fidava io avevo un mio perchè, e anche bello grosso direi, ma in un mondo di cane-mangia-cane che ci sto a fare, con le mie mille attenzioni, con i miei scrupoli, con la mia consulenza a volte fine a se stessa ma solo per il gusto di averla fatta, anche se il Cliente non ha firmato niente, ma è informato e soddisfatto.
Certi mestieri finiscono, con naturalezza. Mi sento tanto un maniscalco, con tutto questo amore per le zampe dei cavalli mentre sta arrivando, prepotentemente, l'automobile.
Mi chiedo se serve che io sacrifichi una dipendente, che è una persona, una vita, e che con ogni probabilità (per età, attitudini e capacità) non troverà mai più un altro lavoro, se poi magari tra qualche mese sono io stessa a mollare, e allora tenendo duro potevo lasciare un organico da tre a chi subentrerà a me, al probabile cazzutissimo aggressivo ballista. Certo, nell'immediato risparmierei parecchio, tanto da tener duro per un altro anno o due, ma poi? Poichè nessuno ha certezze, è giusto sacrificare una pedina del gioco solo perchè ho il potere di farlo? Ma del resto, mi ripeto, ho bisogno anche io di una boccata d'aria, visto che i costi sono sempre quelli mentre i guadagni sono un terzo di meno, e checchè ne dicano quei grandissimi fenomeni dei Sindacati (un grosso bubbone, un enorme handicap di questo Paese! Avevano un senso a inizio Novecento, quando gli operai morivano nelle fabbriche sprangate senza alcuna tutela, non certo adesso per alimentare solo ed esclusivamente i loro nomi e i loro privilegi, ingessando il mercato del lavoro!) non posso farmi carico di un dipendente che non mi serve più, che non riesco a pagare, solo perchè lui "ha bisogno di uno stipendio". Mica mi cascano dal cielo, i soldi! Ecco, se penso ai Sindacati le lascerei a casa tutte e tre di corsa, subito, senza tante manfrine. Come tanti Colleghi professionisti (assicuratori e non) con cui mi sono confrontata, che da tempo ormai non pagano più le tredicesime e le quattordicesime (cosa per me inconcepibile, illegale, piuttosto si deve trovare una soluzione alternativa ma non puoi snaturare il contratto di chi lavora per te, è un furto).
Invece penso a loro, accidenti, al bene che voglio a tutte e tre, e sto un male cane. 

Claudio Cargiolli

Io li capisco, gli ex-forumisti di Antonio Nunziante. Eccome se li capisco! 
Entusiasti, esagerati, forse un po' matti (in senso buono), si erano lasciati andare in quel Forum che era uno spazio tutto loro, nato e cresciuto presumo con grossi sforzi in quanto a tempo e impegno, per condividere un'emozione comune, confrontare i propri gusti, una sorta di Piazza d'Italia metafisica in cui, da tutta Italia, virtualmente si ritrovavano, chiacchieravano, si conoscevano. E poi gli incontri veri, reali, le vere cene, le Mostre!
Il problema è che, quando si parla e si scrive in uno spazio "pubblico", arrivano le ripicche. Se uno sente, o pensa, o crede, che gli abbiano pestato i piedi, reagisce. Poi ci sono i provocatori, veri o falsi che siano, e poi c'è quello che Il-Forum-è-onor-mio-quindi-fate-quello-che-dico-io. Insomma, un gran casino. Finisce che per fare quello che piace, e che in fondo è di una semplicità disarmante (parlare d'arte, di quadri, di gusti), bisogna quasi quasi nascondersi. E, da nascosti, per delicatezza certi argomenti trattarli solo tra gli iscritti, non pubblicamente, vale a dire l'esatto opposto del messaggio iniziale: l'arte è bellezza, parliamone! Condividiamola! 
Io ho un Blog, non un Forum, il che è lievemente diverso, perchè in un Forum tutti parlano con tutti, mentre nel mio Blog questi "tutti" parlano solo con me, non possono interagire fra loro (del resto, è il mio diario, non una Piazza d'Italia). Dovrebbe essere più semplice, la responsabilità di quello che scrivo è mia e ben identificata, posso a mio piacimento pubblicare i commenti di chi mi scrive oppure eliminarli senza alcuna pietà. Invece ammetto che anch'io, nell'ultimo anno, ho avvertito, ogni tanto, qualche difficoltà (a parte il tempo di mettermi a scrivere, che non ho più come prima, ma forse è bene che la fame bulimica di scrittura del biennio 2012-2013 sia conclusa, ora sono più ponderata). Granellini, sabbiolina, ma da prendere in considerazione. Gente tanto cara che ti chiede di parlare di un argomento sul quale non hai nel modo più assoluto voglia di soffermarti, e ti sembra poco carino rifiutare, oppure, peggio ancora, la sensazione opprimente da bavaglio, perchè più gente ti legge meno libera sei. Non puoi parlare di questa cosa perchè Tizio si secca. Non puoi criticare Caio, quand'anche costruttivamente, perchè poi si incazza, o ti pianta il muso. Non puoi dire di essere stata nel Tal Posto, perchè non si deve sapere. Eccheccavolo! Era meglio quando non mi filava nessuno, mannaggia. 
Quando una persona meravigliosa come Paolo Orler mi abbraccia e mi dice "cosa scriverai su questa serata?" riferendosi alla presentazione del Catalogo Generale di Marcello Scuffi, come cavolo faccio a dirgli che il Catalogo non mi piace? Mi si chiude lo stomaco, piuttosto. Intendiamoci, la serata è stata splendida come sempre, tutti gli Orler sono stati splendidi come sempre, è proprio il volumone da tre chili e mezzo che mi fa l'effetto così così. E l'ho anche detto a Marcello in persona, visto che un paio di settimane dopo la presentazione siamo andati a trovare lui e Lia, nel loro nido viareggino, e vederli lì mi ha fatto il solito dolcissimo effetto, come quando li vedo nella casa di Quarrata. Coccoli, tra di loro e con noi, mentre ti mostrano orgogliosi il "loro" mare, da quel terrazzino che è lui da solo un intero mondo, e dal quale si intravede, ma solo se è il tuo Giorno Speciale, la famosa Isola-che-non-c'è che spesso appare e scompare anche nelle tele di Marcello, un'isola, non le pendici degradanti dei suoi monti, un bacio fuggevole di roccia che si avvolge di foschia come di una sciarpa leggera. Al piano di sopra, visto che, come noi, non hanno bisogno di camerette aggiunte (quante cose accomunano noi e loro!), Marcello si è preparato uno studiolo, che non ha la sacralità della chiesetta di Quarrata ma che a suo modo attira, lassù, nel profumo del vento della pineta, e probabilmente è il principale responsabile dell'ultima serie di acquerelli, vertici ormai insuperabili, densi come dipinti, in cui l'acqua è quasi un ricordo eppure l'avverti, quando ti scivola nell'anima. 
Intendiamoci, il volumone è prestigioso, esteticamente molto bello e con un apparato critico notevole. Però c'è troppa quantità, e dà l'effetto di una confusione mista che prende un po' la gola (col senno di poi, io magari avrei fatto un cofanetto con tre volumi più piccini: oli, strappi d'affresco e acquerelli, tanto per dare più respiro fin da subito). All'inizio si parte con belle impaginazioni larghe, e alla fine si approda al micron, come una moto che arriva lunga ad una curva e si accorge tardi che la strada gira e più in là c'è solo il guard-rail. Ci sono quadri nella realtà minuscoli pubblicati a piena pagina (quadri assolutamente normali, a volte senza infamia e senza lode), e tele enormi, ricche di particolari, tra l'altro suggestive e bellissime, riprodotte come francobolli. Visto che, generosamente (ancora un plauso agli Orler!), non è stato chiesto manco un centesimo ai proprietari delle opere per la pubblicazione (e quindi nessuno poteva pretendere niente), magari era il caso di fare una piccola scrematura, operare una qualche scelta selettiva, ragionarci sopra un po' di più: per un pittore ancora in vita mostrare questa grande, infinita ammucchiata può essere controproducente (ed infatti tendenzialmente il Catalogo-Generale-di-tutto-di-più si fa ai morti, di cui pubblichi ogni cosa si trovi in giro, perchè si presume che altro non ci possa essere, oppure se lo fa da sè Nunziante, ma questo è un altro discorso, con dieci e passa volumi di roba a quel punto si perde per forza di vista l'obiettivo-qualità).
Dovevo dirlo? Potevo dirlo? Qualcuno si arrabbierà? Posso ancora conservare un minimo di libertà di opinione? Chi la pensa come me batta un colpo.
Già che oggi mi sto giocando alcune amicizie, togliamoci 'sto benedetto bavaglio di carinerie e delicatezze, e fatemi parlare di una persona magica che ho conosciuto da poco e che già adoro (non come Scuffi, ma ci siamo quasi): Claudio Cargiolli. Non che sia da top-secret Cargiolli in sè, ci mancherebbe, quanto il fatto che io sia stata a trovarlo di persona, nel suo studio-piccionaia, a Carrara. 
C'è, da qualche parte nel mondo, una persona che mi vuole molto bene (bene che io ricambio, perchè sarebbe impossibile non farlo) e che, molto semplicemente, era a conoscenza di quanto mi piaccia Armodio, di quanto io impazzisca letteralmente per CERTA bravura tecnica - diversa da quella degli iper-realisti, che tecnicamente ammiro perchè non sono rimbambita (e quando uno è bravo c'è poco da fare: è bravo) ma che mi lasciano un po' freddina, con buona pace di mio marito che alle Fiere si incolla con la bavetta ad ogni Pellanda che vede, pur sapendo che io, su questo, sono incorruttibile. Parlo di una bravura che vada oltre l'immagine, una bravura da CESELLO, da significato celato, da poesia e gioco. Questa persona un giorno mi dice: "Ti faccio conoscere uno che come pittura un po' ci somiglia, ad Armodio, vediamo se ti piace", e mi ci ha portato. E' stato un regalo che non scorderò mai, uno di quei momenti importanti, una di quelle emozioni a cui ripensi, chiudendo gli occhi e inspirando a fondo, quando sei sotto pressione e cerchi IL pensiero positivo che ti rassereni prima di ributtarti nella mischia. Giusto poco prima della Fiera di Bologna di quest'anno, quindi posso affermare di essere stata una delle prime persone, se non la prima (a parte i congiunti di Cargiolli), ad aver visto ultimato e ancora "fresco" il famoso trittico che poi è stato esposto nello Stand di Forni. Non che abbia fatto chissà quali cose turche, nel suo Studio, ma visto che in quei giorni si stavano concludendo gli accordi tra lui e gli Orler, mi è stato fatto capire che questa visitina non doveva essere troppo pubblicizzata, onde evitare pellegrinaggi di Clienti Orler fuori zona. 
Ma, accidenti, non facciamo sempre i materialisti, un pittore non si visita solo ed esclusivamente per comprare quadri a prezzi ribassati! Anzi! Io sono più che felice di comprare dagli Orler per le loro "forme di pagamento agevolate", e poi partecipo ai loro Eventi, mi fanno sentire speciale, ma non mi perderei per nulla al mondo l'emozione di stringere la mano a uno come Claudio Cargiolli, a casa sua. 
L'emozione di arrivare in una Carrara semideserta e addormentata, con l'aria di Gennaio che ti punge il naso mentre osservi l'ennesima mutazione del paesaggio toscano (la Toscana, regione incredibile, una sola terra ma con mille diversi volti, non solo le morbide colline dove svettano i pettini fitti dei cipressi, ma anche i suoi sguardi aspri, o le spiagge, i pini marittimi, i profumi di salmastro). Salire nel bianco le scale un po' sbilenche e incerte di un vecchio palazzo su, su, su, fino all'ultimo piano, dal quale vedi una distesa di tetti e, anche se il mare non è poi così vicino, ti sembra quasi di sentirlo, forse nell'aria, forse negli odori dei muri (l'odore tipico, a me ben noto, di Trieste e di alcune città portuali), forse nello stridio degli uccelli. 
Trovare questo folletto giocoso che ti apre la porta, e ti fa entrare, in penombra, così puoi solo intravedere poche cose (dipinti, teste marmoree, tappeti, seggiole) fino al cavalletto, esso sì, invece, completamente illuminato, coperto con un telo che lui solleva come una madre. Sì, proprio come una madre, ecco dove ho visto quella stessa luce negli occhi: una madre nel reparto maternità che solleva il lenzuolino per mostrarti il suo neonato. Uno sguardo che è un misto di gioia, di fremiti, di fierezza, e di orgoglio, per lo sforzo patito e la sofferenza del parto, e per la propria creatura, reale, viva, ora finalmente al mondo. 
L'emozione di poter scrutare dapprima l'opera in ogni sua minuscola parte, in ogni suo ricamo, davanti e dietro, con quella finestrella improvvisa da cui un occhio ti scruta, e il folletto che ti spiega quanto ci abbia lavorato, su quell'occhio così botticelliano da un paio di centimetri appena. Qualcuno ti spia dall'altra parte, e vuole vedere che succede di qui, mentre tu getti lo sguardo su un altro Universo, un'altra realtà, un mondo parallelo fatto di alberi che volano, di scale verso la Luna, di case senza tetto, di finestre senza porte, di animaletti veri oppure inventati, perchè tutto è al limite del surreale, ma, credo, senza un significato particolare. Sì, ne sono convinta, non ci sono doppi sensi nella pittura di Cargiolli, non c'è la volontà di svelare/rivelare chissà cosa, non c'è bisogno di interpretare niente: un gatto è un gatto, un pettirosso è un pettirosso, un cesto di uova è un cesto di uova, ma solo per il gusto di abitare una nuova dimensione, un levitare fiabesco, un gioco di bambini, come parlare con un amico immaginario, che nessuno vede tranne te, che conosce i tuoi segreti. E' come se lui si divertisse a farti scoprire un mondo OLTRE. Sicuramente si diverte a dipingere, questo è evidente, non c'è nulla di seriale, anche in soggetti apparentemente simili spunta una fila improvvisa di formichine per distrarti.
E, poi, l'emozione di guardarsi intorno, perchè non è solo per la pittura che sei lì, ma per lui, anche, per vederlo, per vedere come dipinge, se è vero che usa lenti speciali, come crea quei pizzi infiniti a rilievo, quasi come staccati ed applicati direttamente da un tombolo, in una Burano misteriosamente nascosta in Tirreno. Uno studio piccolo, piccolissimo, accatastato di libri, di ricordi, di ritagli, e quel tavolo con i colori già spremuti in verticale, tanti, tantissimi, come lunghe lingue, come dita indurite che spuntano a rilievo. Anzi, come un paesaggio onirico, un paesaggio quasi lunare, come roccia erosa, come i Camini delle fate della Cappadocia, questo colore ti colpisce e ti stordisce venendoti incontro e facendosi strada tra i pennelli. Pennelli ovunque, di ogni misura, dovunque l'occhio cada. 
Lui sorride, continuamente, perchè sa perfettamente cosa stai provando, legge lo stupore nei tuoi occhi, e anzi ti provoca, raccontandoti quanto tempo ci vuole per le realizzazioni più intime, per quelle minuzie studiate nei minimi particolari con addosso quella buffa montatura con le due lenti d'ingrandimento, pesante, ingombrante, che si sposa benissimo con la sua capigliatura ribelle e gli dà un'immagine da inventore, da scienziato, di quelli che viaggiano nel tempo e, spesso, da qualche parte nel fiume del tempo si perdono. Ti parla delle sue tavolette, e delle sue carte così amate e sottovalutate, elogia la lentezza nella creazione, scherza con i richiami ai Grandi che lui inserisce spesso, ora nascosti ora palesi, nei suoi quadri. 
E tanto traspare l'amore per quel luogo, per il suo lavoro, per i suoi soggetti, che ti balza evidente ciò che ha detto di lui Vittorio Sgarbi, confrontandolo, appunto, con Armodio: è vero, sono molto simili, rappresentano le due facce di una stessa pittura, di una pittura di perfezione, di una pittura certosina, di lavoro accuratissimo, di precisione ultraterrena. Solo che Armodio ne rappresenta, in un certo senso, l'aspetto maschile, più asciutto, volutamente enigmatico, mentre Cargiolli ne è il lato femminile, più dolce, più vezzoso, sia nei soggetti (colombe innamorate, animali sognanti, cieli aperti, perle, angeli) sia nei colori, i suoi rosa pastello stemperati nell'azzurro, ma anche i rossi e i viola così vivi, o i lampi dorati nel blu scuro. Armodio in effetti è più posato, ha una scala infinita di bianchi, lavora su gradini di latte, e poi ha i suoi grigi, i beige, i nocciola, preferisce elementi solidi come il ferro, il marmo. Armodio è più profondo, forse, più sagace, più ironico nel gioco degli oggetti e nella ricerca dei titoli. Ma Cargiolli ha tanta poesia dentro e fuori, la fa volare lentamente, la distribuisce come da una mongolfiera, e nei suoi titoli c'è una parola ricorrente, "amore", che avvolge tutto, dai camini aperti, alle zampette degli insetti, al mare. Poesia e amore, insieme, come una madre, ancora una volta. 
Non si chiede mai ai bambini se vogliono più bene alla mamma o al papà! Mamma e papà sono le due parti della famiglia, diversi ma ugualmente importanti, non c'è l'una senza l'altro. E così per me questi due straordinari artisti: capisci l'essenza della pittura quando li hai davanti entrambi, quando li hai osservati entrambi, li hai conosciuti entrambi, hai stretto la mano ad entrambi. Quando, eccezionalmente, ti hanno aperto la porta del loro mondo e ti hanno ammesso, per un attimo, a comprenderlo. Non mi si può chiedere di tacere.            

Ricordando Licata (un Maestro che non c'è più)

Sono tante, davvero. Parlo delle cose che mi mancano in questo periodo della mia vita, in questi mesi.
Mi manca quell'idea di avere del tempo per me, del tempo in più che mi avanzi, da impiegare per leggere, scrivere, o anche semplicemente riposare e non fare assolutamente niente. L'IDEA di tempo, chiaramente, perchè di tempo vero non è che ne avessi molto da buttare neanche prima, ma l'idea di averne c'era sempre, sottostante, viva, costante: l'attendevo, la coltivavo, ed era rassicurante come la cioccolata. Arrivava all'improvviso, e mi ritrovavo assonnata, oppure al computer, o in un Palazzo museale. Ora, invece, è un susseguirsi di no, no, no.
Mi manca gente che non sia incazzata su tutto, mi manca poter chiacchierare in ufficio, o al bar, o nell'androne del condominio, solo per il gusto di farlo, senza che ciascuno ti travasi addosso le proprie ansie, le proprie frustrazioni, e le proprie maleducazioni, anche e soprattutto. Per la strada, in autobus, in treno, in automobile.
Mi mancano alcune cose: aprire il computer alla mattina, in ufficio, e trovare tre-quattro mail utili ed importanti, con richieste significative e precise, a cui rispondere con la giusta e debita attenzione. Invece ce ne sono mediamente trenta, e ben più della metà sarebbero da cestinare senza degnarle nemmeno di un attimo di vita, mentre io mi ostino, al limite della perversione, a volerle riscontrare  tutte, anche quelle inutili, anche chi ti fa richieste delle quali sa già benissimo che non ascolterà le risposte (evidentemente c'è chi si sente importante solo per il fatto di saper USARE la posta elettronica), risposte che - a volte - non si  possono limitare ad un sì o un no, ma richiedono un discorso ben più articolato e complesso, considerando che sono scritte, e carta canta, anche se virtuale. Bastardi, voi e le vostre mail di cui fate raccolta come con le figurine dei calciatori, senza magari ricordarvi com'è che si saluta, si abbraccia.
Mi manca andare al ristorante e trovarlo sempre lì, il MIO ristorante, non chiuso e/o ceduto a un franchising di chissà dove che vende chissà cosa. 
Certo, più di ogni altra cosa mi mancano le persone: persone in generale, persone che sorridano, che parlino quando hanno qualcosa di interessante da dire (un discorso profondo e appassionato, basato su solidi studi, ma anche faceto, perchè no, purchè sia ben raccontato) e non solo perchè sono dotate di corde vocali funzionanti, persone che mantengano la parola data, persone che non raccontino bugie. 
E persone in particolare, persone che non ci sono più.
Mi accorgo, ogni tanto, quando a casa gli passo davanti (cioè spesso, visto che sta in un punto di passaggio, e ce l'ho messo apposta), di quanto mi manchi Riccardo Licata. Mica che lo frequentassi di persona, è un po' come per il tempo: mi manca l'IDEA di lui, l'idea che ci sia, da qualche parte, a riempire il mio mondo con quei suoi segni misteriosi. L'idea di saperlo, comunque già anziano e incanutito, a spasso per le calli di Venezia (perchè lui era così, la incarnava, l'essenza sospesa e fuori di ogni tempo di Venezia), girovagando senza un motivo preciso, solo per assorbirne l'aria e lo spirito, per farsela scivolare dentro come una pennellata acquosa, per poi sbucare improvvisamente nella maestosità del Bacino di San Marco, e sedersi lì, in un posto defilato, estrarre un paio di fogli di carta grossa e porosa, le boccettine di colore come la botticella di un placido San Bernardo, di quelli che portano la salvezza nella neve, a completare la sua muta partitura. 
Mi manca l'idea di rivederlo, in qualche Fiera, come era accaduto più volte: l'ultima in una Bologna di un paio d'anni fa, mi era passato davanti proprio all'ingresso, entrando nel padiglione di sinistra, con quel suo passo incerto ma spedito (piccoli passi rapidi e vicini, con l'aiuto del bastone, un lieve trotterellare sghembo che sembrava quasi un levitare a tre centimetri dal pavimento), e io l'avevo salutato con un sonoro "Buongiorno Maestro Licata!", al che lui aveva risposto con un altrettanto sonoro "Buongiorno mia cara signora!". Proprio così: non il sorriso generico, con lieve cenno del capo, dei pittori che un po' se la tirano, e gongolano dell'essere stati sonoramente riconosciuti in mezzo al mucchio, che di solito popolano le Fiere (neanche considero, volutamente, quelli che danno per scontato che la tua attitudine debba essere per scelta divina il distendersi ai loro piedi srotolando la lingua a mo' di tappeto, rosa. Quelli che neanche sorridono genericamente, e non muovono il collo, o alzano il sopracciglio. Quelli di cui dimenticare l'esistenza, insomma). 
Aveva detto mia-cara-signora. Era bellissimo. Mi sa tanto che l'aveva capito al volo, che sono nata a Venezia. 
"Mia", perchè si sa, un dipinto di Licata in casa ti rende suo, sul serio. Un legame che non si rompe, si rafforza ogni giorno che passi a scrutarlo e ad interpretarlo. A parlarci, o a cantarci insieme, visto che recentemente ho sentito Giovanni Faccenda dire che le rune incise e graffiate di Licata in realtà sono come note musicali, colori e forme che compongono uno spartito, ed è un'interpretazione commovente. Non so se sia vero che gliel'abbia detto lui di persona, si sa, Giovanni a volte esagera un pochino con gli aneddoti e le parole di riporto degli artisti, e visto che è persona intelligente sta sempre bene attento a farlo con artisti rigorosamente morti, che quindi difficilmente si prenderanno la briga di smentire ciò che lui racconta; non per niente si è beccato da un assiduo telespettatore Orler l'affettuoso soprannome di MEDIUM (medium di razza aggiungerei, visto che sapendo che è nato nel mio stesso glorioso anno e facendo quattro conti a spanne, in alcuni casi racconta di essersi trovato a pranzo o a cena con artisti affermati quand'era più o meno quindicenne). Non ha importanza: foss'anche un'idea di Giovanni - nata da uno dei suoi studi piuttosto che desunta da letture - e non reale confidenza, Licata l'avrebbe sicuramente apprezzata, come apprezzava la musica in tutte le sue forme. Viveva di musica, in un certo qual modo, come di pittura (io, che respiro e vivo di linguaggio in ogni sua espressione, che ne sono e ne sarò sempre affascinata, preferisco continuare a decodificare i suoi simboli in parole; ma anche immaginare il Maestro dietro ad un'orchestra, con il pennello che segue fluido il susseguirsi di note cristalline, mi riempie il cuore di poesia: un direttore-ombra, pure lui). 
"Cara", perchè sì. Non lo conoscevi, ma gli eri caro, e lui a te. Solo perchè eri lì, segno che c'era, a prescindere, una passione per la bellezza, per l'arte, una ricerca comune. La sua, chiaramente, iniziata molti anni prima, e sviluppata, riconosciuta, progredita come un murale che si snoda e sorprende, come una strada lastricata che si ricopre di tasselli, fitta fitta, come i suoi mosaici. La tua, a bocca aperta, dietro, in costante ammirazione. Un solo altro pittore mi ha fatto e mi fa, negli anni e nelle Fiere, lo stesso effetto da "mio caro", ed è Tino Stefanoni. Un altro che risponde sempre ai saluti degli emeriti sconosciuti con gentilezza innata, con garbo, con affetto, senza mai stancarsi. 
E poi "Signora", perchè in fondo lo sono, e uno come Licata, gran signore pure lui, queste cose le vedeva. E' un approcciare diverso, rivolgersi alle persone con "signora" e "signore", così antico forse, ma ricco di significato. Io lo preferisco in senso assoluto, anche al più deferente "dottoressa" con cui spesso mi chiamano in ufficio, e che sotto sotto per me non sa di niente, è solo una firma su un pezzo di carta, non mi rende migliore come persona e nemmeno più brava come professionista. Ero tanto più giovane, ai miei esordi in Agenzia, e mi ero rivolta con "signore" ad un Cliente arrabbiato, che per tutta risposta mi aveva sottolineato che era "dottore" e ne gradiva la deferenza; e io, che ero sbarbina ma già - se tanto mi dà tanto - "dottoressa" anch'io, gli avevo risposto che l'avrei chiamato dottore più che volentieri, visto che di essere chiamato signore (che è sicuramente di più!) non lo meritava affatto. Figuriamoci, nella mia famiglia contiamo fior fiore di laureati risalendo oltre i bisnonni (e si parla di metà Ottocento), ti pare che mi faccio intimidire da un pezzo di carta. Signore è un modo di essere, un modo di vivere, e Licata lo era, signore e Maestro, avvolto in quella barba da Babbo Natale sotto due occhi furbi e pieni di dolcezza. Occhi che hanno visto tanto, e compreso tanto.
Mio caro signore, sei stato un grandissimo. Ti ho accompagnato di recente a Firenze, perchè quel drittone di Franco Ristori ha voluto ospitarti nella sua Bottega in occasione di una delle sue Serate, per far cantare con te anche un pezzetto di Toscana. Io te l'avevo detto che la Bottega è piccina, a volte tutte quelle opere strette alle pareti possono spaventare per troppa bellezza, è uno stordimento senz'aria, soprattutto se non ci si è abituati. Quanto mi ha colpito dentro vedere questi visi, questi occhi che da qualche tempo ho imparato a frequentare, guardarti e non capirti, accidenti! Visi dubbiosi, bocche tirate. Ho sempre inteso la Toscana (con la Sicilia, in verità) la culla dell'arte in Italia, la culla di chi vive e respira l'arte più somma fin dalle scuole elementari, e invece sono ancora fermi ai cipressini e alle casette. Forse è perchè hanno avuto la fortuna di possedere tutto il meglio del "classico", dal Cinquecento in poi, e fanno più fatica a concepire che ci possa essere ALTRO altrettanto potente.  
Non ti offendere se c'è stato chi ha chiesto se "il pittore era presente per farsi una foto assieme", e nemmeno per quella tipa anziana che scuoteva la testa dicendo "è una pittura troppo moderna, io non li capisco questi pittori giovani", prendilo come un complimento e ridici sopra da lassù, assieme a Capogrossi, di cui sei erede di diritto, insieme a Scanavino, che era praticamente tuo coetaneo ma se ne è andato ben prima di te. Maestri tutti del segno, del simbolo, della scrittura celata sotto un gesto, sotto un graffio, solcata sopra un lago di colore, piuttosto che lasciata nitida, sopra una superficie intonsa. 
Lo sai che poi, alla fine, in qualcuno la scintilla è scattata, e ora tu ci sei, in più di una casa, a Firenze, e mica solo perchè è bene averti, in senso economico, per le tue certe future rivalutazioni (conservandoti nascosto in un armadio, sotto ai cipressi, come ho supplicato di fare almeno ad un paio di presenti che conosco, perchè ne sono convinta, del tuo immenso valore). Ci sono stati dei "miei cari signori" che ti hanno ascoltato e capito, rapiti anch'essi dal tuo messaggio, dalla tua astrazione. Che ti porranno a vista, in luoghi di passaggio, e parleranno con te, come faccio io. Osserveranno prima gli strati di colore, densi, graffiati via, scavati, esplosivi; e impareranno poi a decifrare i tuoi simboli ricorrenti, le rune primordiali che permettono un'unica comprensione, che sconfiggono Babele, che rappresentano una scrittura universale che non ha bisogno di latitudini e longitudini: sono arte pura. 
E, un po' alla volta, sentiranno anche loro la tua mancanza in un'Italia impoverita.